Un antico e saggio detto popolare afferma “Chi lascia la strada vecchia per la nuova, sa quel che lascia ma non sa quel che trova“, a voler significare che dietro ogni cambiamento possono nascondersi dei rischi e sicuramente molte incognite.
Nel romanzo “La linea d’ombra” di Joseph Conrad”, il giovane protagonista, secondo ufficiale di bordo in una nave della marina mercantile britannica, decide di lasciare una carriera sicura e ben retribuita per fare ritorno a casa,
una decisione d’impeto, dettata dall’irrazionalità e dalla follia giovanile, che ovviamente nessuno riesce a comprendere. Il destino però, pone davanti al protagonista un importante incarico, il comando di una nave rimasta senza comandante, l’occasione della sua vita, proprio mentre ormai sembrava aver preso la decisione di “mollare tutto“.Durante la scorsa estate la “decisione” l’avevo presa anchio.
Continuare a lavorare nella scuola non aveva più alcun senso nel momento che il tutto si svolge di fronte a uno schermo e che la tecnologia informatica ha sostituito il calore dei rapporti umani.
La DAD è la morte della didattica senza se e senza ma.
Per didattica non intendo solo un metodo per poter trasmettere conoscenza e nozioni, vale a dire insegnare qualcosa, ma intendo anche e soprattutto l’interazione che avviene fra chi trasmette e chi recepisce la conoscenza, questa interazione è sempre bilaterale e interscambiabile, io trasmetto la mia conoscenza ma ricevo quella altrui e questa si trasforma in esperienza, esperienza comune, condivisa.
Nella DAD, questo non avviene.
L’unica esperienza che maturo è quella di rapporti transumani.
Ovvero rapporti tra uomini e macchine, oppure rapporti tra adulti psicopatici e bambini psicopatici, perché si tratta di rapporti che la paura e l’emergenza hanno forzato ad essere attuati senza averne la benché minima competenza e consapevolezza.
Posso permettermi di “sparare” la mia sentenza, avendo lavorato come animatore digitale in una scuola con oltre 400 alunni tra primaria e media e oltre 50 docenti, tutti da gestire e assistere.
Questo è il motivo che mi ha fatto maturare la decisione di lasciare la scuola.
Un peccato davvero, e non per lo stipendio ma perché non c’è lavoro più bello al mondo, dove il contatto giornaliero con i ragazzi, non solo ti permette di crescere e migliorare, ma permette un miracolo che tocca pochi illuminati, quello di restare giovani, certo nella mente ma spesso anche nel fisico.
Ho assistito alle consuete nomine di inizio anno scolastico (anche queste svoltesi online) con la sola intenzione di comunicare, nel momento in cui mi sarebbe stata concessa la parola, la mia intenzione di rinunciare a qualunque incarico una motivazione ben precisa: visto e considerato che il ministero ritiene più sensato convocare giovani iscritti alla facoltà di scienze della formazione primaria senza alcuna esperienza anziché valorizzare chi ha trascorso gli ultimi 13 anni in prima linea spendedosi con tutte le risorse possibili a sostegno dei ragazzi più fragili, allora non ha alcun senso continuare a fare il supplente “stabilmente precario”.
E invece…
quando finalmente è giunto il mio turno di parola, è arrivata la proposta di una cattedra di arte, una cattedra di appena 8 ore in quel di Peveragno.
Una miseria per molti miei colleghi, a me invece è sembrata l’occasione della vita.
Arte, la mia materia, quella che ho studiato e praticato sin da ragazzo, quella che mi ha permesso di acquistare la mia modesta casetta ma quella che non ho mai avuto modo di insegnare perché da quando ho iniziato, nel lontano 2008, ho sempre lavorato sul sostegno e mi è sempre piaciuto, anzi, a dir la verità, mi ha davvero appassionato e regalato molte soddisfazioni e l’affetto degli alunni che ho seguito.Che fare dunque? Mollare tutto e rinunciare? Sperare nel miracolo di un’inaspettata chiamata da Cavallermaggiore? Impossibile, quest’anno il sostegno me lo sarei dovuto scordare e forse anche in futuro, visto che chi comanda i fili ritiene che il possesso di un titolo di specializzazione sia garanzia di compentenza, serietà e abnegazione, se fosse vero, in questi anni di peregrinazioni nelle diverse scuole della provincia avrei dovuto assistere a ben altri spettacoli, invece di vedere alunni trascorrere le ore della mattinata scolastica davanti a un distributore automatico di bibite a consumare caffè e cioccolate calde o piazzati davanti a un PC a visionare ininterrottamente sempre lo stesso DVD di Peppa Pig con i propri insegnanti di sostegno impegnati nella originale attività del cazzeggio e sbattersene altamente dei bisogni di questi ragazzi.”Accetto, cattedra di arte, Peveragno“, questa è stata la mia risposta.
In quel momento abbandonavo la mia comfort-zone, accettando il rischio e le incognite.Devo dire che non mi trovo male, la scuola è piccola, in tutto sette classi, con una media di 18 alunni per classe ma Cavallermaggiore era un’altra cosa, averci lavorato cinque anni mi ha permesso non solo di instaurare tutta una serie di rapporti umani di reciproca benevolenza e nonostante la mia timidezza che almeno in principio mi fa apparire orso, anche alcune amicizie che negli anni hanno reso la mia permanenza sempre piacevole anche nelle difficoltà.
L’essere diventato in breve tempo un punto di riferimento per colleghi e alunni la dice lunga sui legami che si sono creati.

Tutto ciò, nella nuova realtà manca e sarà difficile potersi ripetere dato che la mia frequentazione a Peveragno è ridotta a 8 ore settimanali divise in appena due giorni, la metà delle quali in DAD, inoltre il dover indossare un’odiosa quanto inutile mascherina, induce tutti a sostare il minor tempo possibile a scuola, in genere per la paura di venire “contagiati”, a me solo per il disprezzo che provo verso chi ha sostituito i sentimenti con la fede cieca e assoluta nella scienza.

Purtroppo non sono riuscito a instaurare un gran rapporto con gli alunni di seconda e di terza con la sola eccezione degli alunni fragili e di un paio di ragazzine che per chissà quale arcano motivo pendono dalle mie labbra.
Ho visto questi ragazzi appena tre volte in presenza poi è cominciata prima la fase di quarantena post-tampone e successivamente l’imposizione della DAD tramite DPCM, dei quali ancora devo comprendere lo scopo, sempre che ve ne sia uno diverso dalla dissoluzione totale della società e delle menti.Con gli alunni delle due classi prime invece ho instaurato sin dall’inizio un ottimo rapporto, fortunatamente abbiamo potuto lavorare in presenza, questo mi ha permesso di conoscere meglio i ragazzi e di mettere in pratica diverse idee, come ad esempio quella di produrre ogni settimana un nuovo elaborato in modo da mantenere alto l’entusiasmo, ma anche quella di affiancare la parte pratica alla parte teorica direttamente nella realizzazione degli elaborati evitando noiose lezioni davanti al libro di testo.
I ragazzi si sono mostrati entusiasti e così anche i genitori, questo mi ha dato una grande spinta motivazionale oltre che una gran dose di autostima, inoltre frequentare questi ragazzini porta sempre energie positive, dopo ogni lezione mi sento rinfrancato, rigenerato, come se avessi preso una medicina miracolosa, un ricostituente, invece l’unica medicina sono loro, i ragazzi, con i loro volti, le loro mille domande, il loro spirito, l’allegria, il baccano, la curiosità, gli sguardi.
Vogliamo curare gli anziani nelle RSA? Permettiamo loro di vedere e frequentare i nipotini, vedremmo anziani ricominciare a vivere, invece si preferisce terrorizzarli, per “il loro bene”, per “salvaguardare la loro salute”… questa è a mio avviso, la maniera migliore per avvicinarli alla tomba.Le festività natalizie mi hanno sempre causato un senso di malinconia, già da piccolo, da figlio di genitori separati, non digerivo il distacco dei miei, avrei voluto vivere quei momenti nell’unione familiare, ma le poche volte che questo si verificava erano dolori, non avrei mai immaginato che a distanza di oltre trent’anni, quando tutto sembrava solo un lontano ricordo, la cosa avrebbe assunto un tale peso nel mio animo da farmi sprofondare nella depressione e tutto in seguito a una situazione come ne possono capitare tante nella vita, un amore non corrisposto che comunque non rinnego, il vecchio giudice nella mia testa ha provato più volte a umiliarmi e a farmi vergognare per il mio comportamento.
Ma poi di cosa mi dovrei vergognare? Di essermi innamorato? Di essere tornato ragazzo e incosciente? Dovrei vergognarmi di aver fatto un ritratto alla ragazza che amo? Di averle dedicato una poesia e di averla lasciata in custodia presso una croce di montagna a quasi 3000 m d’altezza? O dovrei vergognarmi di pensarla spesso e di stare in pensiero per lei durante una tempesta o una nevicata?
L’amore non l’avevo cercato, è capitato, e quando capita non c’è razionalità, si può solo sperare che sia ricambiato, se non lo è, il dolore diventa la naturale conseguenza.Se una delusione d’amore l’avessi vissuta a vent’anni, sebbene avrei provato comunque dolore, le ferite si sarebbero in breve tempo rimarginate, a quarant’anni è diverso, soprattutto se non ci si è “immunizzati”, difatti, a distanza di oltre due anni, non ho ancora pienamente recuperato il senno e la ferita è più che mai aperta.Comunque, anche se mi ha portato nella disperazione e ha reso la mia vita una perpetua sofferenza capace ancora di guastare le mie notti e talvolta anche le giornate, sono grato al Signore per non avermi concesso quell’oblio che tante volte ho pregato e supplicato di poter ottenere, perché avrei perduto il ricordo di un’esperienza, nel bene o nel male, molto significativa e di un sentimento che altrimenti non avrei mai provato, l’amore autentico e incondizionato.

L’equilibrio è lungi dall’essere ritrovato, provo sempre a ripetermi come un mantra che ce la farò, che non sono più un bambino ferito ma un adulto in grado di comprendere e accettare, dopotutto se sono un discreto supporto per molti bambini dovrei riuscire a supportare anche il mio bambino interiore, evidentemente il tempo necessario a guarire certe ferite è maggiore di quello trascorso finora, spero sempre che ogni crisi sia l’ultima.

Quando esce una bella giornata e il sole brilla nel cielo, tutto torna sereno anche nella mia mente, allora intensifico le camminate e così l’esposizione al sole, sembra una stupidaggine, ma questo aumenta il buon umore e tutto allora mi sembra possibile, eppure quando stavo bene, prima della depressione, la nebbia, la neve, l’autunno e l’inverno che adesso odio, non mi creavano alcun disagio, per certi versi li preferivo al caldo e all’afa estiva.

Sono sempre in contatto con i miei ex colleghi, Daniela M. la quale è stata la mia ancora di salvezza nel periodo più nero, lei, il suo compagno Federico e il loro affettuoso cane Guglielmo, un amico sincero che purtroppo è mancato ma che ha saputo lenire il dolore delle mie ferite nelle camminate domenicali in montagna. L’altra Daniela, la siciliana, solare e sempre positiva Daniela C., che mi ha tollerato quando il mio umore era sottoterra e che ha avuto sempre parole gentili nei miei confronti. Sento ancora Claudia, mia preziosissima assistente nei tre anni trascorsi accanto a Elena, l’altro mio grande amore, questo ricambiato, perché una ragazzina Down ha un amore esagerato per chi mostra attenzione e affetto nei suoi riguardi.
Scambio mail con Paola, la mia coraggiosa collega di arte e artista vera, una guerriera che alle parole fa sempre seguire i fatti, ricevo messaggi da Costanza che tra i tanti problemi e impegni, trova sempre il tempo per me.
Poi c’è Giovanni, le sue telefonate possono durare anche un paio di ore, perché quando si ragiona alla stessa maniera il tempo sembra non passare e i consigli dispensati valgono più dell’oro.
Sono in contatto con Stefania, dolcissima quanto sensibile collega di sostegno, dopo tre anni in Piemonte è tornata in Calabria, nonostante il trattamento spesso indegno riservatole da alcuni docenti, so che un pezzo di cuore lo ha lasciato anche lei a Cavallermaggiore.

Non ho più avuto contatti con Maria, la collega di matematica andata in pensione nel 2019, i suoi impegni tra nipotini, cani e orto, la tengono fortunatamente occupata, ma posso affermare che è tra le colleghe che stimo di più, inoltre lei è riuscita nel miracolodi farmi adorare la geometria.
Infine Ornella, la collega di italiano con il quale ho avuto la fortuna e il privilegio di lavorare il mio primo anno e anche l’ultimo, se come docente valgo qualcosa, lo devo anche a lei, la sua immagine seriosa e quasi austera nasconde una sensibilità e un’empatia poco comuni, quello che ho appreso da lei, in una sola e semplice parola è l’umanità.
Credo che nonostante le differenze di carattere, la diversa concezione di senso del dovere, di scuola, di insegnamento, le simpatie o le antipatie che certamente ciascuno di noi prova, è stato importante confrontarsi con tutti in questi anni a Cavallermaggiore, questo mi ha portato a eliminare il giudizio verso gli altri, passo fondamentale per non ricadere nel baratro del giudizio verso me stesso, il vecchio giudice che abita la mia mente sarebbe implacabile, la sue sentenze sono sempre di condanna, mai di assoluzione.
Mi spiace aver lasciato Cavallermaggiore perché anche se non avrei avuto modo di vedere, se non di sfuggita (magari in stazione) i miei alunni delle classi terze dello scorso anno, visto che ora frequentano le scuole superiori, avrei potuto seguire alcuni alunni ai quali ero (e lo sono tuttora) molto affezionato, alunni che quest’anno concluderanno il proprio percorso alle medie, come Chiara, una ragazzina con la testa sulle spalle, il solo fatto di essere la sorella di Elena la pone tra i miei affetti più cari; Lucrezia, una ragazzina dal talento enorme come enorme è il credito che vanta con la sorte; Giovanni, il simpatico birbantello dal cuore d’oro; la sempre sorridente e stralunata Aya e la dolce e fragile Marta.
Pazienza, la vita va avanti sia per me che per loro, mi auguro che possano superare tutte le difficoltà di quest’anno particolare e spero di rivederli un giorno, così come spero che la mia nuova esperienza possa proseguire positivamente, vorrei recuperare terreno, soprattutto verso i ragazzi delle classi seconda e terza, spero che con l’anno nuovo si riesca a farli tornare in presenza, la didattica a distanza è qualcosa di deleterio e antidemocratico ma per me non è quello il problema principale o perlomeno non è il solo, vorrei averli in presenza perché è l’unica maniera che conosco per “vedere” il ragazzo o la ragazza che c’è dietro ciascun alunno, la sola maniera per trasmettere quanto di più prezioso ho appreso in tutto questo tempo, e quanto di più utile può esserci al mondo, in una sola semplice parola: l’umanità.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

Questo sito usa Akismet per ridurre lo spam. Scopri come i tuoi dati vengono elaborati.