Il non aver avuto un padre, almeno non come questo ruolo viene generalmente inteso, ha sempre fatto sì, che probabilmente, più che da docente, il mio atteggiamento in classe fosse più vicino a quello del genitore.
Per genitore intendo, si badi bene, al vecchio modello genitoriale, quello in cui si alzava la voce quando era il caso e anche le mani (anche se io le ho sempre alzate contro l’armadio di metallo dell’aula di arte), e si rimproverava anche duramente per il bene dei figli, ma si sapeva essere comprensivi, a maggior ragione quando i figli mostravano bassa autostima, malesseri esistenziali e un gran bisogno di essere capiti, non certo il genitore 2.0 tanto in voga oggi, quello che lascia i propri figli in balia dei social, che pur di non avere seccature, asseconda qualsiasi capriccio del pargolo e non si prende la briga di leggere un bugiardino prima di somministrare un qualsiasi farmaco al proprio figlio, o la mamma che afferma di essere la migliore amica di sua figlia.

Se così fosse, quello sarebbe un problema.
I dodici anni da insegnante di sostegno, si sono svolti in questa stessa modalità: insegnante-genitore, pur non essendo io padre.
Certo avrei potuto fare come molti docenti di sostegno, infilarmi i guanti, indossare mascherine e mantenere le distanze, e questo ben prima della pandemia, solo perché schifati dalla saliva della ragazzina Down piuttosto che dal moccio del ragazzino autistico.
Io non ho mai alimentato distanze, e i miei alunni e le loro famiglie, hanno sempre pianto quando ci siamo dovuti separare, ed io più di loro.

Un bambino percepisce se l’adulto che lo affianca è amorevole, se gli vuol bene e anche se di lui si schifa o prova ribrezzo, percepisce la distanza. Quando un insegnante agisce ponendo barricate e distanze, l’anno scolastico sarà un inferno per l’alunno e una passeggiata per il docente.
Il non aver figli è un peso che mi porto dietro, ma non me la sento di mettere al mondo un figlio a 45 anni, non voglio che mio figlio si vergogni e mi chiami nonno, non voglio mettere al mondo una creatura in una terra che mi ha sempre considerato straniero o peggio terrone, ignorando che per metà sono tedesco, non so se riuscirò mai ad accettare tale condizione, ho sempre desiderato una figlia femmina, così come desideravo una sorellina quando era piccolo, ma mia sorella nacque morta prima che io nascessi.
Fortuna vuole, che il mio lavoro mi ha permesso di sopperire, almeno in parte, a questa mancanza.

A questi ragazzi voglio e vorrò sempre bene, ad alcuni di loro, per un motivo o per un altro, li amo come se fossero davvero figli miei. Ho appena perso i ragazzi delle classi terze, Valentina, Alessio, Elia, Asia, Tommaso, Samuele, Oliver, Letizia, Ersi, Aurora, Sara, Renato, Alessandro, Federico, Sofia e Susanna, Vincenzo, Lorenzo, Viola, Anna, Vanessa, Gioele, Ilaria, Greta, Beatrice, Thomas, Diego, Mathias, Pietro, Giulia, Matteo, Djakarija, Lucrezia, Greta, Hamza ed Edvin, ci siamo salutati e abbracciati, io con il cuore segretamente spezzato, loro con l’entusiasmo tipico di chi si presenta al futuro, così dev’essere, l’affetto non si cancella, anche se non li rivedrò, quello resterà, e per me significa sopravvivenza, a me nessuno dirà mai “ti voglio bene papà!”, ma “Le voglio bene prof!”, e questo non può che farmi piacere.

Non so quanto denaro ho speso in colori, pennelli, regali, buoni amazon, gommose, caramelle, cioccolatini ai loro compleanni e festiccicole a sorpresa per alunni che stavano vivendo situazioni difficili, credo un paio di stipendi almeno, quel che so è che il clima in classe è allegro, sereno e positivo, così come lo era nelle classi in cui ho fatto sostegno.

Conosco solo un modo per insegnare, quando non potrò più farlo come desidero, non lo farò affatto.

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