Sicuramente l’annuncio con cui il comandante ha invitato i passeggeri a continuare a tenere allacciate le cinture e prepararsi ad abbandonare il velivolo lasciando sul posto i propri bagagli, non ha aiutato a mantenere un clima sereno, il contemporaneo spegnimento di tutte le luci e l’ennesimo forte scossone del velivolo hanno poi fatto il resto.

È anche vero che la violenta turbolenza che ha accompagnato il volo da quando abbiamo sorvolato le Alpi svizzere, non ha dato un attimo di tregua e ha trasformato un viaggio in aereo in una sorta di test antisismico con continui sbalzi e contraccolpi.
Tutto è cominciato quando l’aereo è penetrato all’interno delle grandi nubi temporalesche, le luci di segnalazione poste sulle ali creavano dei lampi riflessi dalla grande massa di condensa, dopo alcuni istanti sono iniziati i salti nel vuoto, acconpagnati dalle prime esclamazioni dei passeggeri.
In seguito, gli scossoni più violenti, hanno generato il terrore e le prima grida, poi, un improvviso abbassamento di quota, attuato dai piloti per tirarsi fuori da quel festival di pioggia e vento, ha trasformato il terrore in vero e proprio panico.
Le giovani e inesperte hostess sono state le prime a sbiancare in volto, le rassicurazioni offerte ai passeggeri più agitati non hanno sortito alcun effetto e strano sarebbe stato il contrario.
Se a rassicurarmi è una giovane donna con voce tremante, sguardo nervoso e occhi fuori dalle orbite, l’unica cosa che cercherei di fare è rassicurare il rassicuratore.

Le povere hostess, costrette dagli eventi ad andarsi a sedere (ed allacciare) alle proprie postazioni, non hanno più emesso fiato, e con malcelato terrore, avranno rivolto particolari preghiere al Signore. Ho avuto pena di loro, probabilmente, come molte giovani, sognavano questo lavoro, non so quale sia il loro stipendio, ma vederle servire cibi scadenti, trascinandosi carrellini pieni di snack e bibite, svilisce non solo la loro fresca bellezza, ma anche tutti i sogni di gloria giovanili.
Mi sono trovato a deridere, ma solo nella mia mente, gli altri passeggeri, vedere le loro reazioni isteriche mentre io continuavo ad ascoltare musica sul mio mp3 player, ha colpito anche me.
Non si tratta di coraggio o di autocontrollo, si tratta di consapevolezza, se sei su un aereo e quello precipita, non è che hai alcuna chances di sopravvivere, né puoi prepararti in qualche modo, non è come nei film d’azione hollywoodiani, che pochi metri prima dell’impatto al suolo puoi saltare e salvare la pelle.
Tutt’al più puoi rivolgere una veloce preghiera, ed è quello che faccio sempre prima di mettermi in viaggio, non perché io temi particolarmente incidenti aerei, stradali o ferroviari, ma perché la morte, quando decide di farti visita, non puoi mica dirle “torna più tardi”, oppure “oggi sono troppo impegnato, facciamo un’altra volta”, né ti avvisa in anticipo con un messaggio del tipo “ci vediamo domani alle 18.00”.

Una preghiera ricorrente quando viaggio recita pressappoco così:
“Caro Padre, ti prego, fa che possa giungere a destinazione e che vada tutto per il meglio, ma nel caso dovessi morire durante questo viaggio, fa che i miei cari non abbiano a soffrire e dona loro la necessaria consolazione, fa che i miei amici e parenti mi ricordino per le mie poche azioni degne piuttosto che per i miei molti errori, e che i miei amati ragazzi possano ricevere dalla vita le soddisfazioni che meritano, fa che possano realizzare i propri sogni e ricordare che li ho voluto bene, se in qualcosa posso essere stato loro di esempio, fa che sia qualcosa di meritevole”.

La donna che mi siede accanto, ha le mani serrate sui braccioli, la schiena e la testa pressate contro lo schienale, lo sguardo fisso sulle istruzioni d’emergenza affisse sul retro del sedile che ha davanti, mi chiedo se le stia leggendo o se è solo un modo per distrarsi. Vorrei dirle qualcosa per tranquillizzarla, non so in che lingua parlarle, tolgo per un attimo gli auricolari dalle orecchie, appoggio una mano sul suo braccio più vicino e con voce calma ma decisa, azzardo un “it’s all right, planes don’t crash in a thunderstorm, this only happens in the cinema”.
La donna non risponde ma si aggrappa al mio braccio con tutta la forza, le mimo il gesto di sollevare il bracciolo che ci separa, lei capisce e lascia la presa liberando così braccio e bracciolo, che sollevo immediatamente. Fra noi adesso non c’è più alcun ostacolo. Infilo un braccio dietro la sua nuca e le afferro la spalla più lontana, adesso siamo stretti l’uno all’altra, fianco contro fianco.
Nulla di nuovo per me, l’ho fatto diverse volte con mia moglie, dato che ha paura di volare, ma questa volta è diverso.
Non conosco questa donna, non ci siamo guardati neanche per un istante prima che tutta questa situazione avesse inizio, come purtroppo è ormai norma in epoca post pandemica. Non conosco il suo nome, né lei conosce il mio, non so che lavoro faccia, da dove proviene, quanti anni ha, di che colore sono i suoi occhi. So solo che sulle unghie ha uno smalto color madreperla, un caschetto di lucenti capelli neri, una giacca color salmone, dei braccialetti dorati di bigiotteria che risuonano quando muove le mani, inoltre emana un buonissimo profumo.

Non so per quanto tempo siamo rimasti abbracciati, se qualche istante o alcuni minuti, so che per tutto quell’indeterminato periodo di tempo, ho avvertito il ritmo del suo respiro accelerato, la sua paura è autentica e bene ho fatto a offrirle il mio aiuto.
Il velivolo continua a scendere di quota, adesso lo fa con cadenza regolare.
Un annuncio ci invita a continuare a tenere le cinture allacciate e rimanere seduti.
La mezzanotte è scoccata da alcuni secondi e come per magia, dalla fitta coltre di nubi sono apparse minuscole, le luci di una città.

Le scene di panico iniziano a scemare, i passeggeri cercano di ricomporsi in un atteggiamento più dignitoso, fino a un attimo fa l’isteria la faceva da padrona.
Un’ulteriore manovra ci fa scendere ancora di quota, adesso si vede chiaramente la pista poco al di sotto.
La donna si stringe ancor più a me, cerco di infonderle ancor più sicurezza stringendo a mia volta con più calore il suo corpo al mio.
L`aereo atterra con qualche sussulto, poi i motori emettono il loro potente ruggito per permettere la frenata, il fiato è sospeso.
Pochi istanti e siamo a terra sani e salvi, un applauso liberatorio esplode e le luci a bordo si riaccendono.
Il velivolo procede a velocità ridotta verso il posteggio assegnato.
Dal finestrino vedo il piccolo aeroporto di Baden-Baden, l’atmosfera è nebbiosa, le molte luci di segnalazione della pista si confondono con quelle natalizie e vengono riflesse dalle numerose pozzanghere.

Allento la presa sulla donna, lei fa lo stesso.
Evitiamo di incrociare i nostri guardi, non una parola viene scambiata tra noi.
I passeggeri slacciano le cinture, hanno tutti fretta di scendere dall’aereo, molti dovranno correre al gabinetto, per altri è già troppo tardi, se la sono fatta addosso, in ogni modo torna la generale e diffusa maleducazione, si fiondano tutti verso d’uscita, non esiste cavalleria nè semplice rispetto delle precedenze.

La donna si alza, prende la sua borsetta, e si infila in mezzo alle altre persone in coda per scendere. Mi levo in piedi anch’io, attendo che qualcuno mi faccia passare, ma è del tutto vano. Approfitto del varco lasciato da un uomo occupato ad armeggiare con il proprio bagaglio e mi infilo nel flusso dei passeggeri.
Vedo la donna con la giacca color salmone una decina di metri più avanti, ormai prossima all’uscita. Un attimo dopo è ormai fuori dal velivolo nonché dalla portata del mio sguardo.
Un minuto più tardi anch’io sono prossimo all’uscita. Saluto cordialmente la giovane hostess che staziona sorridente davanti l’uscio e svolto per varcare la soglia.
Prima di scendere le scale che mi conducono sulla pista, do un’occhiata tutto intorno.
L’aria è satura di umidità, la nebbia rende ovattata tutta la scena, di lei nessuna traccia.

Mi diriggo verso l’entrata dell’aeroporto seguendo il percorso preposto. Vedo il basso edificio dell’aerostazione davanti a me, i pochi passeggeri che mi precedono sono distanti una dozzina di metri.
Dalla bocca emetto vapore ad ogni respiro, la temperatura deve essere prossima allo zero, eppure ho caldo.
Frugo nelle tasche dei pantaloni alla ricerca del tagliando che mi da il diritto di entrare nella zona ritiro bagagli.
Oltre la soglia d’ingresso due poliziotti mi chiedono un documento d’identità e verificata la mia provenienza, fanno cenno di proseguire. Sul nastro rotante, alle loro spalle vedo un trolley rosso, è il mio. Generalmente viaggio con il solo zaino, ma questa volta sono stato costretto a portare un bagaglio extra, in modo da poter portare i numerosi prodotti richiesti da mio fratello, soprattutto dolcetti tipici prodotti nella terra in cui sono nato, la Calabria.

Afferro il mio trolley al volo ed esco dall’area ritiro bagagli senza che nessuno mi abbia chiesto alcun tagliando. Adesso mi trovo in un’area intermedia, i pochi negozi presenti sono chiusi per via dell’ora tarda, l’aeroporto in genere chiude a mezzanotte, se ancora è aperto, è dovuto al ritardo con cui il mio volo è arrivato. La toilette è poco più avanti, alcune persone sono in fila in attesa. Mentre vi passo davanti getto un’occhiata superficiale e noto una persona ferma di fronte agli specchi dell’antibagno, indossa una giacca color salmone, mi sembra stia raccogliendo fra le mani i capelli che subito lascia cadere.
Ruota la testa a destra e sinistra per un rapido controllo, infine prende un piccolo oggetto dalla borsetta, lo maneggia per un solo istante, poi lo porta verso le labbra dove evidentemente lo passa velocemente alcune volte.
Sono sempre più vicino, ma procedo lentamente, adesso sono certo che sia lei, ma non voglio metterla in imbarazzo o sembrare indiscreto, il mio passo torna regolare ma decido di procedere oltre.

Penso che è meglio così, dopotutto, l’occasione fa l’uomo ladro, ed io non voglio cadere in tentazione.
Neanche il tempo di concludere questi miei pensieri che alle mie spalle sento il rumore di passi affrettati, “to-toc, to-toc, to-toc”, dev’essere qualche tipo di calzatura con tacchi.
Subito dopo una voce dal tono indeciso e piuttosto flebile pronuncia “excuse me”.
Mi volto e mi ritrovo dinanzi alla donna dai capelli corvini.
Azzardo un timido “sì?”.
La donna accenna un sorriso impacciato, mostra una dentatura bianca e splendente e i suoi occhi spalancati e lucidi sono di un bellissimo color nocciola.
La donna mi chiede o piuttosto constata “allora sei italiano”.
Le rispondo “Sì, sono italiano, ma per metà anche tedesco”.
Mi abbraccia come se mi conoscesse da sempre, mentre sussurra “grazie, grazie, grazie, grazie, grazie!” con voce sempre più spezzata, infine delle lacrime le scendono sulle guance, guastandole il trucco. In principio rimango inebetito, bloccato, rigido come un pezzo di marmo. Faccio per scostarla leggermente da me, vorrei guardarla negli occhi.
È bellissima anche con il trucco guastato.
Le dico “sono felice di esserti stato d’aiuto e di aver trascorso alcuni interminabili istanti abbracciato a te, di aver sentito il tuo respiro, di averti stretta accanto a me, mi ha aiutato a superare la paura, e sono ancor più felice adesso che ho potuto ascoltare la tua voce”.
Le sue braccia nuovamente intorno alla mia nuca, mi attirano a sé, ci stringiamo in un nuovo abbraccio, un ultimo abbraccio, adesso mi sento più sciolto ma rimango composto.
L’abbraccio si conclude con le sue labbra umide sulla mia guancia sinistra, i suoi occhi a guardare i miei per alcuni istanti e quel sorriso impacciato che spunta nuovamente sul suo volto, infine, senza un parola di commiato, fa una repentina giravolta, e si allontana con passo deciso, con lo stesso “to-toc, to-toc, to-toc” con cui si era annunciata.

Rimango immobile, ancora incredulo, la seguo con lo sguardo, si allontana sempre più, fino a scomparire in fondo al lungo corridoio, oltre il varco principale.
Ho ancora il suo profumo nelle narici e l’intensità di quegli occhi color nocciola nella mente, ma non sto male, al contrario, mi sento bene.
Non conosco quella donna. Non conosco il suo nome, né lei conosce il mio, non so che lavoro faccia, da dove proviene, quanti anni ha, ma adesso so che ha due occhi bellissimi e che ricorderò per molto tempo il suo buonissimo profumo.
Mi sento di buon umore, come un alunno l’ultimo giorno di scuola, con questa disposizione d’animo mi avvio verso l’uscita. Superata la barriera di sicurezza, una piccola folla di parenti attende i propri cari, alcuni espongono dei cartelli, “familie Ritter”, “Hans Werner” oppure “Frau Sarah qualcosa”, se le persone indicate non sono tra quelle corse al gabinetto, presto le potranno abbracciare.

Cerco di superare l’imbarazzo dei tanti sguardi puntati su di me, oltrepasso il muro delle persone in attesa con un agile slalom, mio fratello sorridente mi viene incontro, in testa un berretto di lana amaranto con su scritto “Reggina Calcio”, mia madre, pochi passi più indietro, indossa come sempre lenti oscuranti anche se è notte inoltrata.
Sono felici di vedermi, hanno ovviamente notato il ritardo con cui è atterrato l’aereo, non ne conoscono il motivo, né sanno ciò che è accaduto in volo o una volta atterrato.
La prima cosa che mi chiedono però, è, come mai il segno di due labbra rosse è stampato sulla mia guancia sinistra.
Divampo per l’imbarazzo ma glisso le domande con un sorriso, la riposta sarà oggetto di discussione nel tragitto che dall’aeroporto ci condurrà a casa.
“Come è stato il volo?” chiede mia madre.
“Bellissimo”, rispondo, “uno splendido, incantevole, magico volo notturno”.

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