Ritorno in Calabria a distanza di 8 anni dall’ultima volta.
Non ho particolari aspettative, so già che mi accoglierà una città in sfacelo, d’altronde non è un viaggio programmato, non si tratterà di una vacanza e se posso permettermi questo viaggio, in un periodo dell’anno in cui generalmente avrei dovuto trovarmi dietro una cattedra, è solo perché quest’anno il Ministero dell’Istruzione ha preferito lasciare me e mia moglie a casa, come del resto tutti i colleghi, per la verità pochissimi, che di fronte al ricatto vaccinale, non hanno piegato la testa, anche se questo voleva dire rimanere senza stipendio.
Il clima è quasi estivo.
Posati i piedi sulla pista aeroportuale, avverto il sempre presente vento caldo del sud sul mio volto. Tutt’intorno s’intravedono le brulle colline che sovrastano la città, ultime propaggini del massiccio aspromontano. Alle mie spalle l’Airbus dal quale siamo appena scesi e oltre di esso il mare azzurro cosparso da una moltitudine di creste candide e spumose, create dal continuo soffiare dei venti sullo Stretto di Messina.
L’aeroporto è semideserto, i pochi passeggeri arrivati sono andati via alla spicciolata. Getto uno sguardo verso la zona in cui ricordo si trovavano le agenzie di autonoleggio.
Non sono più lì, ma mia moglie mi indica qualcosa.
Davanti ai controlli sicurezza noto un annoiato agente di polizia, unica presenza visibile nel vasto ambiente dedicato alle partenze. Mi avvicino con passo deciso per chiedere dove sono stati trasferiti gli autonoleggio, ma quello, forte della sua autorità e senza neanche darmi il tempo di aprir bocca, mi intima l’alt e con tono perentorio mi dice che da lì non posso passare.
Spiego a questo novello Gandalf in divisa che non intendevo passare, dato che sono appena sceso dall’unico aereo che ancora fa rotta verso questa città disastrata, e che non ripartirà prima di questa sera, ma che desidero sapere dove hanno collocato i box degli autonoleggio.
Ottenuta l’informazione ringrazio l’agente e mi dirigo fuori dall’aeroporto.

Percorsi all’incirca 400 metri trovo l’oggetto della mia ricerca, un edificio bianco con grandi insegne colorate, posso leggere i nomi dei più noti brand del settore car rent, anche se devo constatare che per arrivarci non c’è marciapiede e un turista con bagagli o trolley al seguito, farebbe molta fatica a trascinarsi dietro una simile zavorra.

Il manto stradale è sconnesso, non sono presenti indicazioni, inoltre si deve attraversare la rotonda che va sulla strada provinciale senza un vero attraversamento pedonale, quindi rischiando di venire travolti dai veicoli in transito.
Fortunatamente ho portato solo lo zaino, ormai da anni viaggio in maniera molto pratica, non ho bisogno di portare con me mezza casa, mia moglie questa volta ha seguito il mio esempio.
Percorriamo la breve rampa che conduce all’angusto atrio dove sono disposti i box dei vari autonoleggio, prima del varco d’ingresso c’è un piccolo terrazzo porticato, un uomo ci osserva da dietro gli occhiali da sole, è comodamente sdraiato come se fosse in spiaggia, i piedi sul tavolino che ha davanti e sigaretta accesa tra le dita.

Al mio cordiale saluto, risponde altrettanto cordialmente e domandandoci cosa desideriamo. Bene, penso io, dev’essere uno degli impiegati o un uscere. Riferisco che ho una prenotazione e dovrei ritirare l’autovettura. L’uomo con gesto assonnato mi fa cenno di entrare.
Individuo l’insegna azzurra che corrisponde all’agenzia con cui ho prenotato l’auto, una Panda.
L’esile e sportiva ragazza dietro al bancone ci saluta con un bel sorriso e ci chiede di cosa abbiamo bisogno. Le consegno il foglio con la prenotazione. Dopo le formalità di rito, la ragazza ci informa che l’auto non sarà una Panda bensì una Polo. Rimango perplesso. Sono assente da troppo tempo da questa città, ma da buon masochista ho sempre seguito i suoi quotidiani on-line, so che le strade si presentano come un Groviera, una Panda sarebbe ben più a suo agio in un simile habitat, ma pazienza, vorrà dire che mi adeguerò.
Anni di guida al nord, mi hanno reso molto più civile, cauto e rispettoso, tutte qualità che qui valgono ben poco.

Qui vige la legge della giungla, al semaforo passa il più lesto, il più prepotente, il più furbo, la tracotanza è il primo requisito per chi vuole vivere a Reggio Calabria senza farsi venire un attacco di bile ogni due passi.
Penso che sarà difficile, dopo questa esperienza, riabituarmi a guidare la mia carriola al rientro in Piemonte, quest’auto ha tutta una serie di optional e accessori formidabili, almeno per me che sono abituato al solo contachilometri, al tachimetro, alla spia del serbatoio e alla manovella dell’alzacristalli.

Questa plancia invece è degna dell’Enterprise, controlli al volante, autoradio, connessione bluetooth, alzacristalli elettrici, climatizzatore e tanto altro. Il mio timore è che una simile dotazione serva a ben poco in una città che potrei definire, citando Benedetto Croce, “un Paradiso popolato da diavoli”.
Percorse poche centinaia di metri facendo lo slalom per evitare le buche disseminate lungo il manto stradale, mi immetto sulla tagenziale. L’ora è tranquilla, il traffico scarso, in appena due minuti giungiamo all’uscita volgarmente denominata”bretelle”, a indicare le due carreggiate, una in direzione mare, l’altra in direzione monte, separate dalla fiumara Calopinace, presso la cui foce approdarono nel VIII sec a.C. i calcidesi che fondarono la città di Reghion. A dominare le due carreggiate, l’imponente edifico del CeDir, il centro direzionale, con i suoi ampi e moderni spazi, meta delle lezioni di guida serali impartite a mia moglie quando eravamo ancora fidanzati oltre che giovani, entrambi studenti in Accademia. Ricordo le spensierate sere d’estate, quando calzando i rollerblade, ci cimentavamo in corse, salti e acrobazie.
Accanto al CeDir e prossimo a rubargli la scena, il nuovo Palazzo di Giustizia, un’enorme e moderna astronave, salita agli onori delle cronache per le infiltrazioni malavitose coinvolte negli appalti per la sua costruzione.
Ci siamo quasi. Quartiere San Giorgio Extra. Non ho mai approfondito il perché di quell’Extra nel nome, forse sta per extraterrestre, dato che sembra di entrare in un altro mondo, molto più probabilmente per distinguerlo dal più centrale San Giorgio al Corso.
Ai lati della strada, cumuli di immondizia di ogni genere “ornano” i marciapiedi, quintali di sacchetti di plastica pieni di rifiuti, carcasse di lavatrici e televisori, pezzi di carrozzeria, vecchi mobili, materassi e reti ortopediche, alcuni dei quali presentano segni di bruciature. Capita sovente che qualche cittadino indignato o qualche giovane scapestrato, appicchi volontariamente il fuoco ai rifiuti, sperando di liberarsi dall’orribile e nauseabondo tanfo. Le buche qui diventano voragini, più che una strada sembra il Grand Canyon, centrarne una significherebbe scassare l’auto, per questo mi sono premurato di acquistare l’opzione zero pensieri, in caso di danni, furto o incendio, non dovrò scucire un euro, anche se il costo sostenuto per tale garanzia non è stato certo economico.
Parcheggiata l’auto a distanza di sicurezza dalle enormi fosse presenti sulla strada, onde evitare che il rimbalzo di qualche sasso, possa provocare danni alla carrozzeria, suono il citofono, mentre mia moglie, a pochi passi dietro di me, guarda intorno con aria mista tra la nostalgia e il disprezzo.
Lei ha vissuto in questo quartiere per una decina di anni, ma il suo cuore è legato a un altro quartiere cittadino, distante solo un paio di km in direzione mare, Sbarre Inferiori, zona Stadio-Ferrovieri, sono gli anni in cui in casa sua viveva la sua cara nonna, una persona dolce e pacata, che è venuta a mancare proprio pochi giorni dopo il trasloco nella casa in cui ci stiamo recando.
Mia suocera ci sta aspettando con trepidazione, è lei la causa di questo viaggio non previsto, afferma di non poter più vivere da sola, le sue azioni però, sembrano portarla nella direzione opposta.
L’età si fa sentire, peggiorando, se possibile, il suo già pessimo e paranoico carattere. Ha fatto sempre a pugni con l’intero quartiere, chi non tollera le ingiustizie ha solo due opzioni: impara a strafregarsene oppure cambia quartiere se non addirittura città.
Mia suocera invece ha preferito optare per la lotta contro i mulini a vento. Ha litigato con tutte le oltre 80 famiglie del suo condominio, per questioni da poco, come cani che sporcano o lasciati liberi senza guinzaglio, bambini che giocando danneggiano le piante o le parti comuni dei condomini, l’appropriazione dei suoi posti auto (anche se lei non guida e non ha l’auto), panni stesi che gocciolano sul suo balcone, cicche di sigarette nell’ascensore, cenere lasciata cadere per sbaglio sopra le lenzuola stese e altri “simpatici scherzi”.
Si ostina a presenziare le riunioni di condominio solamente per accertarsi che nessuno firmi a nome suo un qualsiasi atto, discute da quasi trent’anni con l’amministratore, più volte sono arrivate alle mani, per il semplice fatto che è della sua stessa pasta, ma con una propensione alla disonestà e ai traffici poco limpidi, d’altronde è il prototipo in voga a Reggio Calabria ad essere così, tanto è vero, che gli abitanti di Reggio si chiamano “reggini”, mentre il personaggio scaltro, strafottente, maleducato e prepotente, viene identificato con il dispregiativo “riggitano”.

Come in quasi tutto il mondo, gli incivili sono una minoranza e Reggio Calabria non fa eccezione. Il problema è che qui, una minoranza, riesce a rendere la vita un inferno alla restante parte di cittadinanza, il perché è presto detto. L’appartenenza, vera o millantata, a qualche cosca di ‘Ndrangheta, vanto di molti riggitani, è sufficiente a tenere a bada i bravi cittadini. Sono pochi quelli che hanno il coraggio di non piegare la testa ed eventualmente assumersi il rischio di eventuali ritorsioni.
Ai tempi in cui ero studente in Accademia, ebbi un incidente d’auto, ero alla guida dell’auto di mia mamma. Mentre mi trovavo fermo ad uno stop, in attesa di immettermi sulla via principale, fui travolto da una Smart che dalla via principale svoltò, a velocità sostenuta e non controllando la propria traiettoria, proprio sulla via in cui ero in attesa. L’impatto causò danni ingenti a tutta la fiancata destra dell’auto di mia mamma, alla guida della Smart c’era uno degli uomini di punta della cosca Tegano, uno che di nome faceva Donatello, come il celebre scultore fiorentino, ma questo lo appresi successivamente.
Scesi subito dall’auto, accertandomi che quello non si fosse fatto male, poi contestai la sua velocità nonché la sua traiettoria a dir poco azzardata, certo che non avrebbe potuto negare.
Per tutta risposta mi disse che accettava una constatazione amichevole del danno, dove io avrei dovuto farmi carico di tutti i danni e delle spese. Gli chiesi se avesse bevuto, ma lui si limitò a prendere il telofonino (non c’erano ancora gli Smartphone) e chiamò una dozzina di “amici”, che giunsero in fretta, dato che si trovavano al bar, ad appena duecento metri di distanza dal luogo del fatto.
Quando gli amici giunsero, mi disse con tono canzonatorio e velatamente minaccioso “ti conviene fare questioni? Non sai chi sono io, dai retta a me e la chiudiamo qui!“.
Considerato lo svantaggio numerico, mi premurai di fermare alcuni passanti, in modo da accertarmi di avere qualche testimone, fra questi, ebbi la fortuna di trovare uno degli usceri dell’Assessorato al Turismo della Regione Calabria, ufficio dove lavorara mia madre. Quest’uomo, capì al volo la situazione, mi rivelò in tono preoccupato, chi fosse il personaggio con cui avevo avuto l’incidente, consigliandomi di fare molta attenzione.
Nell’auto insieme a me, c’era la mia ragazza, oggi mia moglie. Se avessi fatto dietrofront, pensai, che figura avrei fatto ai suoi occhi? Cercai di rassicurarla, dopodiché chiamai la Polizia Municipale.
Dopo un’attesa di circa un’ora, che il mio avversario trascorse beatamente seduto al bar a sorseggiare drink insieme al codazzo di amici, arrivarono i tutori dell’ordine, i quali, dopo approfonditi rilievi e sentiti i testimoni, stabilirono “le colpe”.
Il mio avversario risultò colpevole, in quanto non teneva la destra, guidava senza patente e la sua automobile risultava in fermo amministrativo. L’assurdo è che io risultai colpevole in concorso, nonostante tenessi correttamente la destra, fossi fermo allo stop e avessi tutti i documenti in regola e l’auto in ordine.
La vicenda si concluse dopo alcuni mesi, durante i quali mi capitava di incontrare continuamente lo stesso personaggio, spesso “adagiato” all’auto di mia mamma, con il tipico sorrisino di chi sà di essere intoccabile.

Non so se negli anni della sua “intoccabilità” è riuscito a godersi la vita, probabilmente sì, di certo non ha dovuto faticare un granché, almeno non nel senso più ortodosso del termine, fattostà che al momento, e già dal 2009, trascorre la vita dietro le sbarre in quel di Livorno, in quanto sta scontando una serie di condanne alla detenzione inflitte in diversi processi: 9 anni per estorsione con relativo attentato dinamitardo nei confronti di un noto bar cittadino, 15 anni per associazione mafiosa, nello stralcio del processo “Archi-Astrea”, e 19 anni e 8 mesi nel processo “Epicentro”, che vedeva imputati (e condannati) boss e gregari delle principali famiglie mafiose della città. Certo c’è di che essere orgogliosi di un simile pedigree e non ho dubbi che i riggitani lo saranno. Ma se analizzo il dato temporale, quest’uomo oggi ha 48 anni, da 14 anni si trova recluso, deve scontarne ancora 29 più 8 mesi, e alla fine della fiera, si troverà ad aver trascorso metà della propria vita in carcere.

Tornando a mia suocera, lei fa parte di quella piccola fetta di cittadini non disposti a subire le angherie dei riggitani, solo che non riesce a distinguere fra i reggini e riggitani, per cui ne ha sempre una per tutti.
E’ il terrore dei commercianti del quartiere, guai a loro se sbagliano a darle il resto, anche solo di un centesimo. Guai all’automobilista che parcheggia l’auto sul marciapiede, o a quello che non la lascia attraversare, abitudini consuete a queste latitudini. Guai all’impiegato dell’ufficio postale che si gira i pollici mentre c’è una fila chilometrica. Mia suocera si fa uscire gli occhi dalle orbite ed entra nella modalità “super saiyan”, comincia a urlare come una furia, attirando su di sé maledizioni, anatemi e promesse di future vendette.
Capisco che sono recriminazioni più che legittime, ma le sue figlie, hanno subìto per anni le ritorsioni di tali atteggiamenti, sin da ragazze, vivendo e respirando un clima ostile da parte dell’intero vicinato, avrebbero di gran lunga preferito un compromesso, un patto di non belligeranza, anziché trascorrere la fanciullezza senza poter frequentare il parco giochi o le altre, per la verità molto scarse, attrazioni del quartiere, o peggio ancora, temendo che prima o dopo, qualcuno sarebbe passato dalle minacce ai fatti, lasciando stesa per terra la madre. Con il senno di poi, forse avrebbero vissuto meglio e si sarebbero risparmiate privazioni e umiliazioni, come il dover andare a scuola in pigiama, poiché una tuta sportiva costava troppo, il non ricevere mai compagne e amiche, tantomeno ai compleanni, l’essere additate come figlie di una pazza, non fare mai una gita, andare al mare giusto un paio di domeniche in tutta l’estate ma non poter fare il bagno, perché si può morire, oppure non vedersi riconosciuti i propri meriti scolastici, perché la madre litigava ferocemente con tutti gli insegnanti, che per punire lei, se la scontavano con alle figlie.
Non stupisce il fatto che entrambe le figlie provano soltanto risentimento per la madre.
Tuttora, nonostante i 78 anni, mia suocera non riesce a percorrere 100 metri senza inveire contro qualcuno o qualcosa, fino al giorno in cui se la prenderà con la persona sbagliata.

Ricordo che quando lavoravo alla Snai, la prima sala scommesse della città, tutti i giorni veniva a strappare i suoi denari, probabilmente non puliti, un tale che risultava latitante, nel senso che la polizia lo cercava in lungo e in largo, ma lui viveva tranquillo nel “suo” quartiere, e ogni giorno faceva la sua comparsa in centro città, nei quartieri bene, per fare le sue puntate sulle corse dei cavalli.
L’ambiente lavorativo era saturo di fumo e nicotina combusta e ciò mi causava un gran mal di gola, credo di averlo avuto per mesi anche dopo la scadenza del mio contratto, e all’epoca ignoravo i dettami dell’igienismo, i personaggi che frequentavano la sala scommesse erano per la quasi totalità, psicopatologici e compulsivi. Fumo, caffè e gioco, e poi gioco, fumo e caffè, tutto il giorno oppure appena usciti dal lavoro, anche se buona parte erano disoccupati, almeno formalmente.
Un giorno il tizio in questione non riuscì ad effettuare la sua puntata in tempo utile, in quanto una prassi consolidata fra i giocatori patologici, fa sì che essi attendano l’ultimo istante prima della partenza della corsa, cosicché ovviamente, alcuni di loro rimangono con il cerino in mano.
Nell’occasione questo “signore” rimase escluso poiché la sirena di chiusura puntate giunse proprio mentre si accingeva a fare la propria.
I cassieri dovevano essere obbligatoriamente persone dalla velocità fulminea, ricordo che imparai in pochi giorni a gestire le puntate a velocità supersonica, divenendo il cassiere più veloce del West.
I giocatori patologici hanno tutti, senza eccezioni, i loro riti scaramantici, ci sono quelli che giocano sempre con il medesimo cassiere, convinti che esso porti fortuna, oppure quelli che facendo la puntata si toccano le parti intime, quelli che chiedono consiglio al cassiere (regola vuole che si consigli il primo nome che il giocatore menziona), o ancora quelli che indossano abiti di un certo colore, o tengono sollevato il colletto della camicia o afferrano la ricevuta sempre con la mano destra e tenendo le dita incrociate.
Tornando al nostro gentiluomo, la sua reazione, come prevedibile, fu del tutto composta… dapprima inveì contro il mio collega G, poi mentre seguiva lo svolgersi della corsa sullo schermo, imprecò continuando a gesticolare platealmente all’indirizzo del mio collega, quest’ultimo scambiò una rapida occhiata con me e con il titolare che se ne stava quieto sulla soglia del suo ufficio.
Cominciammo una preghiera silenziosa, accompagnata da scongiuri di ogni genere. Il calore estivo si era trasformato in afa insopportabile, sembrava che Lucifero avesse acceso le caldaie infernali e in pochi istanti eravamo inzuppati di sudore.
Né le preghiere, né gli scongiuri, sortirono l’effetto sperato, la sorte premiò il cavallo scelto dal nostro galantuomo, che nel medesimo istante afferrò il cestino della spazzatura, un cilindro in metallo verniciato di nero, strapieno di ricevute strappate e con in cima il piattino riservato alla cenere e ai mozziconi di sigaretta, e pronunciando una sonora bestemmia, lo lanciò con furore in direzione del mio collega.
Il poderoso proiettile mancò il bersaglio, andando a sbattere con fragore e in una nuvola di polvere, contro la parete.
Lasciammo che il tizio sfogasse tutta la rabbia. Gli insulti si sprecarono, ebbi gran pena verso G, lo ricordo con affetto, una persona seria, con la P maiuscola, ma era stato lui stesso a prepararmi a queste situazioni, diceva che “can che abbaia non morde”, ma sapere chi era il “cane” in quella situazione, non mi faceva stare tranquillo, un conto è sentire per strada dei colpi di pistola, altra cosa è assistere in prima persona ad un’uccisione.
Dopo aver pronunciato epiteti in quantità, minacciato sgozzamenti e tirato in ballo anche la Madonna e tutti i Santi, il galantuomo uscì con aria soddisfatta dalla sala scommesse, salì a bordo del suo maxi-scooter e se ne andò sgommando.
Fu G stesso a tranquillizzare me e gli avventori rimasti, non era la prima volta che accadeva e non sarebbe stata neppure l’ultima, “vedrete che domani torna e mi offre caffè e cornetto” disse, e io faticavo ad immaginarlo, invece fu proprio così che andò l’indomani.

Tornando al presente, l’appartamento di mia suocera si presentava nelle stesse condizioni in cui lo ricordavo, polvere a strati e tonnellate di ciarpame accumulato in ogni angolo, non c’era scaffale, cassetto o mobile in cui non fossero presenti contenitori di ogni tipo, dalle vaschette del gelato, ai barattoli di vetro, ai sacchetti di plastica, tutti rigorosamente riempiti con centinaia di pezzi di fil di ferro gommato, quello utilizzato per chiudere certe confezioni di biscotti o di pancarrè, perché “non si sa mai, potrebbero servire”, certe, uno o due, si potrebbe conservarli, ma centinaia se non migliaia, a chi potrebbero mai servire?

Nel corridoio una moltitudine di bottiglie di plastica, alcune vuote, la maggior parte piene d’acqua, per prevenire un’eventuale emergenza idrica, erano disposte militarmente in riga.

L’apice della follia fu palesato da un’infinità di tappi di plastica, riempiti di naftalina o insetticida, e distribuiti ovunque, dietro, sotto o dentro i mobili, per tenere lontane le tarme o altri insetti sgraditi.
Ovviamente quelle assurde misure anti-infestazione, non servivano a nulla se non a rendere l’aria di quei locali poco salubre, ma questo era inutile spiegarlo alla padrona di casa.
Non c’era un solo rubinetto in tutto l’appartamento, tra la cucina e i due bagni, che funzionasse ancora, questo perché, convinta di risparmiare sulla bolletta dell’acqua, ha sempre aperto le manopole al minimo, facendo scorrere un pressocché invisibile filo d’acqua “per non far girare il contatore!”. L’ovvia conseguenza è stata la definitiva ostruzione dei tubi a causa delle incrostazioni di ruggine e calcare.
A ciò si aggiunge l’apatia di una persona depressa da oltre 45 anni, cioè da quando aveva perso il proprio primogenito, non gliene si può fare certo una colpa, sono situazioni dolorose, che possono portare una persona alla follia, dunque questa è forse l’unica giustificazione alle tante azioni assurde intraprese.

 

 

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