Un’altra estate sta per concludersi, un’altra estate trascorsa cercando di coltivare speranze e illusioni, ma anche di colmare il vuoto che provo, sensazione che credevo di aver sconfitto definitivamente, invece come spesso accade ai presuntuosi, adesso pervade nuovamente la mia anima e mi scopro ancora vulnerabile.

Quando ero solo un fanciullo, come tutti i bambini, provavo una serie di paure, alcune razionali, originate da esperienze vissute e situazioni ricorrenti, come prendere un cattivo voto, essere rimproverato da un insegnante, essere picchiato dai miei genitori, finire in mezzo a una sparatoria, venire abbandonato dalla mia famiglia.
Altre paure erano del tutto irrazionali, condizionate più che altro dal cinema e dalla florida fantasia di una giovane mente, come ad esempio il temere le ombre che si celavano negli angoli più bui della mia cameretta nelle notti di tempesta, con il vento che ghermiva le piante sul terrazzo, originando rumori che mi tenevano inchiodato al mio letto, tremante e grondante un sudore freddo, oppure il dover portare fuori Charlie, il mio cane, per fargli fare i bisogni a notte inoltrata, quando per strada non c’era un’anima e il dover percorrere i quattro piani di scale che mi separavano dal rifugio domestico, prima che la luce si spegnesse e le medesime ombre, sempre in agguato in attesa del mio passaggio, potessero raggiungermi e agguantarmi. Temevo inoltre di essere attaccato da uno squalo nelle rare occasioni in cui il coraggio mi spingeva a nuotare più a largo, anche se questa fantasia non era solamente generata dalla visione del film “Lo squalo”, ma dal ricordo nitido, di un’esperienza vissuta in quegli stessi anni, quando insieme a mio fratello, in una rara occasione in cui nostro padre, imbeccato dalle spinte di mia madre, che lo invitava a godersi i figli finché ne aveva l’opportunità, ci volle portare a pesca in barca in mezzo allo Stretto di Messina, nella mitologica zona dove Omero narra della presenza di Scilla e Cariddi, due mostruose creature pronte ad attentare alla vita degli sprovveduti naviganti che attraversavano quelle acque.

mio fratello ed io

Ricordo il sole caldo di mezzogiorno alto allo zenith, la rema quasi del tutto assente, le esche autoprodotte da mio padre con mollica e scorze di formaggio, che presentavano due difetti di non poco conto, il primo consisteva nell’odore a dir poco sgradevole che emanavano, il secondo, ben più importante, era che appena entravano in contatto con l’acqua, si sfaldavano lasciando gli ami scoperti e dunque l’impossibilità di pescare un qualsiasi pesce, con il genitore che bestemmiava per il disappunto. Mio padre trasformò quella giornata di pesca mancata, in una prova di coraggio, gettandosi in acqua e invitando noi “cacasotto” a fare altrettanto.
Io e mio fratello possiamo vantarci di essere, non dico cresciuti, ma addiritura nati in acqua, per cui, il fare un bagno al largo non ci incuteva alcun timore. Ma dove ci trovavamo, non era più “il largo”, vale a dire, 200-300 metri dalla riva, ma era mare aperto, un mare dalle acque di un blu profondo, in cui non si riusciva a intravvedere nulla e che lasciava dunque spazio alle fantasticherie terrorifiche di noi fanciulli, che temevamo di vederci chissà quali creature degli abissi in agguato. Non volendo che al nostro ritorno sulla terraferma, divenissimo oggeto di scherno da parte di nostro padre nonché degli zii e dei cugini più grandi, non solo per non aver pescato niente, ma anche perché ci eravamo rifiutati di fare il bagno tuffandoci dalla barca in quel tratto di mare oscuro, ci facemmo coraggio a vicenda e ci tuffammo, dissimulando una tranquillità che in realtà eravamo lungi dal possedere.

Dopo alcuni minuti in cui restammo nervosamente vicini alla barca, la paura ci abbandonò, sostituita dall’orgoglio: potevamo raccontare ciò che avevamo fatto senza temere gli sberleffi di alcuno. A quel punto speravamo che nostro padre lo raccontasse a tutti una volta rientrati. Cominciammo a nuotare tranquilli, sereni e spensierati, per poi fermarci a galleggiare e goderci quell’ampio specchio di mare che sembrava essersi trasformato in un placido laghetto, dove nulla era in grado di guastare il velo superficiale dell’acqua.
La distanza dalla costa e la mancanza di vento erano tali da impedirci di udire i consueti e familiari rumori provenienti dalla spiaggia, i bagnanti chiassosi, l’andirivieni di motorini a Marina Grande o il treno espresso Reggio Calabria-Napoli, che attraversava le gallerie Paci I e Paci II, il cui eco veniva sempre amplificato dalla conformazione orografica.

Udivamo solamente il suono che la prua della barca in vetroresina produceva quando l’acqua la colpiva con la stessa dolcezza con cui un amante dona le sue delicate carezze all’amata.
Vedevo le mie gambe muoversi in quel blu profondo, apparivano più bianche di quanto non fossero in realtà e oltre i miei piedi, non si riusciva a scorgere nient’altro che l’oscurita marina attraversata da qualche fascio di luce solare.
Proprio mentre contemplavo quello spettacolo, qualcosa, a diversi metri al di sotto dei miei piedi, emanò un luccichio. Pensai che potesse trattarsi di una piccola occhiata, un pesce argentato molto comune nello Stretto, anche se erano soliti nuotare molto più vicino alla costa. Poteva trattarsi anche di un sarago, di un’opa o di un’orata che veniva a sbeffeggiare quei pescatori della domenica che così generosamente avevano elargito esche formaggiose.
Dopo un po’ vidi diversi altri luccichii, provenienti sempre al di sotto delle mie gambe, questa volta apparivano molto più nitidi e lo dissi subito a mio padre e mio fratello, c’erano dei pesci sotto di noi. Tutti e tre ci mettemmo a scrutare le profondità, finché, come fantasmi, apparvero delle sagome argentee, che mi fecero gelare il sangue nelle vene.
Nuotavano a scatti nervosi, incrociandosi ripetutamente, a una decina di metri sotto la punta dei nostri piedi, ma avvicinandosi sempre di più alla superficie dell’acqua e dunque uscendo da quella impenetrabile oscurità.

Ogni volta che un fascio di luce colpiva il corpo di quei pesci, i lucchichii prodotti dal riflesso rivelavano le loro dimensioni e la loro quantità. Capimmo che dovevano essercene a banchi e che erano lunghi un paio di metri circa. Non so come, io e mio fratello riuscimmo a salire sulla barca, credo che la paura di abbia fatto fare un vero e proprio balzo. Una volta in salvo sulla barca, ci sporgemmo per assicurarci che quei pesci andassero via, invece li vedemmo passare al di sotto della barca, a neanche un metro sotto la superficie dell’acqua, con i loro occhi rotondi, neri e inespressivi, le pinne seghettate con riflessi gialli, sembrava che fossero loro a sorvegliare noi. Non avrei mai creduto che dei tonni potessero incutere un tale terrore.

Nella mia mente il tonno era qualcosa di rosa, tenero e saporito, conservato in scatolette d’alluminio ricolme di olio d’oliva, con cui mia nonna era solita farcire, insieme a del pomodoro e delle foglie di basilico, i gustosissimi panini che preparava per noi come merenda “leggera” pomeridiana.

Mio padre tirò su l’ancora, per gettarla nuovamente in mare nella speranza di arpionare qualche tonno da poter poi esibire come trofeo, ma ovviamente non vi riuscì. Io e mio fratello, un remo a testa, cominciammo a remare verso la costa, sincronizzando perfettamente i nostri movimenti, non credo che ci sia mai stata una barca a remi, che sia giunta a terra più velocemente della nostra. Raccontammo a tutti l’accaduto, forti delle conferme paterne, ma l’indomani eravamo tutti e tre a letto con la febbre alta e la pelle ustionata dalla giornata trascorsa in mare senza alcuna protezione dai raggi UV, il racconto del giorno precedente, per tutti divenne frutto del delirio causato dalla febbre.

Un’altra paura giovanile era quella di finire bollito e mangiato dall’anziana signora storpia, che risiedeva nella vecchia casa in riva al mare, di cui maldicenze e pettegolezzi senza alcun fondamento, dicevano essere una strega che amava mangiare la carne dei bambini, non di tutti i bambini, ma solo di quelli che portavano occhiali. Questo mi rendeva una potenziale vittima.
Una volta divenuto adulto, abbandonato quel bagaglio di paure fanciullesche, ciò che più ho iniziato a temere sono stati problemi più concreti, come il dover trovare un lavoro che mi permettesse di vivere dignitosamente, trovare un rimedio per gli attacchi di panico di quella che era la mia ragazza e che poi divenne mia moglie, infine più di ogni altra cosa, temevo la solitudine.

Ed è proprio la solitudine che da 17 lunghi anni, vale a dire da quando sono giunto in Piemonte, è divenuta la mia inseparabile compagna, tanto da essermi assuefatto alla sua presenza e di non temerla più.
Adesso temo solo che il mio oscuro nemico, torni a farsi vivo, più potente e pericoloso.

Quando arriva la paura, lo fa in maniera silente, furtiva. Dapprima giunge un sussurro, una sensazione leggera, della durata di un istante, ma che interrompe un flusso di pensieri che nulla avevano a che fare con essa. Allora rimango in uno stato di allerta, come un gatto nella notte, ma in questo caso, vesto i panni della preda, non del predatore.

Inizio a provare un sottile timore, che nel malaugurato caso io cerchi di allontanare, anziché viverlo per il tempo necessario a ridimensionarlo, si trasforma in paura, quando non in vero e proprio terrore. Ma la cosa peggiore è che il mio nemico lo percepisce.

“Ed è proprio la solitudine che da 17 lunghi anni… è divenuta la mia inseparabile compagna”.

Le mie vacanze sono state una continua lotta contro questa paura, contro i pensieri negativi, contro queste tenebrose sensazioni, un combattimento costante per evitare che potessero prendere il sopravvento e favorire il mio nemico.
Fortunatamente, i due anni trascorsi al fronte, mi hanno impartito alcune importanti lezioni sul come contrastare queste paure, anche se non sono mancati i momenti in cui stavo nuovamente per soccombere.

 

Nel vortice dei miei pensieri, talvolta s’insinua una figura dal chiarore abbagliante, lo fa con dei velocissimi flashback, nitidi e ben delineati. Un volto, degli occhi, una chioma, un sorriso, una voce.
Sempre lei, non riesco a dimenticarla, e se devo essere sincero, non voglio farlo, perché se cancello anche il ricordo, cos’altro rimane?
Non è sufficiente aver già consegnato la mia resa incondizionata nella realtà quotidiana?
Una resa dovuta esclusivamente ai miei principi morali, al voler salvaguardare lei, alla mia coscienza.
La coscienza, un’arma che si ritorce contro coloro che ne possiedono una.

Sebbene a malincuore, l’ho lasciata andare, senza alimentare un sentimento che covavo dentro da chissà quanto tempo e che neanche immaginavo potesse essere ricambiato. Una resa che adesso mi espone alle condizioni stabilite dal mio nemico, e mi avvicina pericolosamente all’orlo dell’abisso.
Spero che questa volta, se prigionia dovrà essere, che possa essere più breve, e la tortura meno dolorosa.
Non sono ancora prigioniero, ho ancora la forza per resistere e combattere.
Non dovrei neanche pensare a una ricaduta, ma il rivivere sensazioni già provate nel recente passato, me la fa temere.
Cerco di affrontare anche questi timori, ma si fa ogni giorno più dura.

Ogni volta che concludo un ciclo, spero di rivedere le persone cui ho dedicato ore e ore di impegno, fatica, sudore e sangue, ma soprattutto empatia e amore. Ha un senso, si tratta del desiderio di stabilità cui ogni persona ambisce, specialmente in questi tempi precari, nonché della continuità cui un docente anela per sentirsi appagato, e per non trasformarsi lentamente, anno dopo anno, in un grigio impiegato, svuotato dell’entusiasmo e del carisma.

Iniziare un percorso con uno o più gruppi classe, proseguire il cammino, affiancando gli allievi fino alla meta finale, ovvero gli esami. Questo dovrebbe costituire la normalità. Normalità che ho potuto provare solamente una volta, appena tre anni sui quindici dedicati all’insegnamento, quando ero docente di sostegno, mentre da quando mi dedico all’insegnamento della mia disciplina, ovvero arte, non ho ancora potuto completare l’intero itinerario, ma vengo puntualmete e rovinosamente sbattuto fuori, catapultato in mezzo ai rovi, dopo averne percorso solo una parte.
Sono comunque riconoscente al Signore, lo scorso anno mi ha permesso di riprendere gli alunni che avevo due anni prima e di condurli fino alla meta, sono stato con loro per due anni su tre della loro permanenza, ed è già stata una grande fortuna, a loro devo molto, forse tutto, di certo è per merito loro che riuscì a sconfiggere il mio nemico all’epoca del nostro primo contronto.
Un confronto impari, Davide contro Golia. Il primo un ragazzino, armato di fionda e della sua fede incrollabile. Il secondo un colosso alto più di due metri, comandante di eserciti, corazzato e armato di spada e di lancia, forte della sua grande esperienza in combattimento.

Io armato solo della mia incrollabile fede nei miei ragazzi, del ricordo dei loro sorrisi.
Lui enorme, come può esserlo un ego millenario, forte della sua esperienza sul campo di battaglia, dove ha sconfitto e annichilito migliaia di vittime, assorbendone la sofferenza e divenendo sempre più potente, esperto nell’uso delle armi più subdole.

Eppure la mia volontà di uscire vincitore dallo scontro, di voler rivedere i miei ragazzi, di riprendere la mia vita, ha prevalso.
Per due anni non più pensieri negativi, non più timori e non più sussurri che mi ponevano in uno stato di allerta e inquietudine.

L’aver perso quei ragazzi, mi fa sentire disarmato, di fatto erano loro il mio unico scudo, adesso su cosa potrò fare affidamento?
La mia forza? Mi chiedo dove sia finita e se sia davvero mai esistita.

La parte più dolorosa è il dover lasciare anche quelli che mi sono stati assegnati per la prima volta, ai quali finisco inevitabilmente per affezionarmi. Non sono un masochista, uno a cui piace soffrire, ma l’essere più “distaccato” nel mio lavoro, proprio non mi riesce, ci ho provato, me lo sono imposto, ma alla lunga ho dovuto cedere, perché l’essere distante dalle anime e dai cuori, non è qualcosa che mi appartiene, anche se questo atteggiamento, poi lo pago a caro prezzo.

Per questa ragione parto per le vacanze sempre con un forte senso di malinconia, che solitamente dura un paio di settimane, il tempo di metabolizzare ed “elaborare il lutto”, in seguito, tra nuotate al lago, corse nel bosco, pedalate fra i campi e qualche brevissima relazione, tutto si alleggerisce e la malinconia lascia il posto alla consapevolezza. Anche quest’anno, la speranza era la stessa.

Quest’estate però, il clima ha voluto metterci lo zampino per complicare la mia ripresa, il bel tempo infatti, è durato appena quattro giorni, poi la temperatura è precipitata dagli estivi 34 gradi, agli invernali 13 gradi, con buona pace del riscaldamento globale e degli allocchi dalla memoria corta che credono anche a questa favola.
Neanche qui sono mancati gli articoli dai titoli sensazionalistici che riguardavano il Belpaese: “Inferno Italia”, “53 gradi!”, “Bollente Italia!”, articoli che miravano a convincere i tanti tedeschi che generalmente scelgono l’Italia come meta per le loro ferie, che il nostro Paese avrebbe comportato un serio rischio per la loro salute, e così portarli a scegliere mete come la Spagna, la Grecia o Cipro, paesi in cui, com’è noto, nevica in agosto.
Che i 53 gradi fossero stati rilevati sull’asfalto stradale, nell’ora più calda e in pieno sole, sembra essere irrilevante per chi si abbevera a tali fonti informative.
Per avvalorare queste tesi pseudo scientifiche, da qualche anno non si menziona più la temperatura reale, bens la “temperatura percepita”. Significa che se siamo abituati al condizionatore d’aria e nonostante i 34 gradi esterni in casa abbiamo solo 25 gradi, nel momento che usciremo per fare una passeggiata o per fare la spesa, ovviamente non percepiremo la temperatura reale, ma ne percepiremo almeno 42, perché bisogna considerare anche l’umidità relativa. Questo non ci trasforma automaticamente in frittate ambulanti o in polli arrosto, tutt’al più suderemo di più e dovremo di conseguenza reidratarci, magari con frutta di stagione. Invece no, la soluzione per la cosiddetta “comunità scientifica”, altra invenzione dialettica atta a far credere che tutti gli scienziati del mondo siano concordi con una determinata teoria scientifica, che generalmente è basata su studi approssimativi quando non totalmente farlocchi o orientati da immani finanziamenti, consiglia di non uscire di casa nelle ore più calde (bisogna davvero avere studiato decenni per partorire un concetto simile) mentre agli anziani che non dispongono di un condizionatore d’aria, consiglia di recarsi in un supermercato o in un bel centro commerciale, dove l’aria sarà certamente climatizzata, il nonno è così sistemato.
Ovviamente, se queste caxxate le avessi suggerite io, fischi e pernacchie sarebbero state reazione lecita, ma lo dice la “comunità scientifica”, nonché la graziosa signorina al notiziario delle ore 20 e tutti gli altri tromboni del mainstream, da Vespa a Formigli, da Mentana alla Gruber, dunque diventa verità incontestabile.
D’altronde, solo nell’ultimo anno, per merito delle più autorevoli (sigh!) firme di Repubblica, Corriere e La Stampa, e ai medesimi tromboni, abbiamo scoperto che esistono anche nazisti buoni, che i membri del Battaglione Azov sono “studiosi” di Kant, che Auschwitz è stato liberato dagli americani (Benigni docet), mentre secondo la presidente della Commissione Europea, Ursula Von del Leyen, altra aristocratica piazzata sugli scranni del potere secondo le norme della democrazia, ovverò votata da nessuno, l’atomica su Hiroshima fu responsabilità dei russi… e poi hanno anche il coraggio di chiedermi come io possa vivere senza televisione!

Ed ecco mio padre, che dopo una vita in cui non sono esistiti né la moglie, né i figli e neanche la sua famiglia d’origine (era meglio suonare con la sua band in giro per il mondo) adesso si preoccupa della mia salute – “Alessandro, rimani a casa, hanno detto al TG che anche in Germania la gente sta morendo per il gran caldo!“.
Del resto per due anni mi ha rotto la testa con il Covid-19, eppure conosce la mia storia, sa che non utilizzo farmaci, sa che non prendo l’influenza stagionale da anni, sa che non ricordo un raffreddore che duri più di 24 ore (se lo prendo), sa che in 15 anni di scuola non ho un solo giorno d’assenza, né per malattia né per altre cause, ma l’ipocondria gli fa credere e temere il peggio.

Cosa dovrei rispondere a un uomo di quasi ottant’anni, che nel corso della sua esistenza se n’è infischiato non solo della famiglia, ma delle regole, delle leggi dello Stato, del buon senso e di tutto ciò che rende “normale” o per meglio dire “lineare”, una vita, per non parlare della salute dei propri figli?

Quando mio fratello, appena maggiorenne piombò nell’incubo depressivo, per mio padre erano solo idiozie, e il suo modo di aiutare mio fratello era dargli continuamente dello stupido.
Adesso teme per la mia salute, ma è lo stesso uomo, che quando avevo 8 anni, fece scendere me, mia madre e mio fratello, da un treno in corsa, per giunta sul lato sbagliato, quello che dava sul binario adiacente, sul quale un altro treno stava transitando. Ricordo il terrore di mia madre che però riuscì a immobilizzare me e mio fratello, in uno spazio di circa 60 cm di spessore (tra un treno e l’altro) per non farci finire travolti.
Lo stesso uomo che nelle rarissime occasioni in cui aveva il compito di venirci a prendere a scuola, se ne dimenticava, lasciando me e mio fratello davanti all’edificio scolastico per ore e ore ad attendere in vano, lo stesso che, quando ci portava con lui e la sua band, terminata la serata, se ne andava a cenare e a far bagordi con amici e ammiratrici, e veniva a “recuperarci” a notte inoltrata, addormentati nella platea ormai deserta. Lo stesso che quando avevo solo due anni mi massacrò di botte e mi gettò fuori di casa, dove sarei dovuto rimanere tutta la notte “in castigo”, se non fosse che una vicina di casa, sentito il mio singhiozzare, ebbe compassione di me e mi raccolse poche ore prima dell’alba.

Ha senso ribattere che la televisione o i giornali, da cui dipendono le sue quotidiane scelte, hanno solo il ruolo di megafono del terrore o di amplificatore di paure, ansie, fobie e paranoie? No, che non ce l’ha, eppure spesso non riesco a contenermi e da tutto il mio essere, monta una rabbia e un rancore per la mia vita passata, quella in cui un padre non l’ho avuto o quella in cui nelle sue brevi apparizioni in casa, l’unico segno tangibile della sua presenza erano urla e botte. In quei momenti la rabbia esplode e ho bisogno di sfogarmi, perciò corro in garage e scarico tutto sul mio sacco da boxe, prima lo facevo contro la parete, ma almeno adesso non mi distruggo le dita.

Anche mia madre ha la sua parte di responsabilità nella mia vita passata, era lei la presenza su cui poter contare, lei ci ha allevati e cresciuti, ma è anche quella che per tutti gli anni in cui frequentai la scuola primaria, gonfiava il mio volto a suon di sberle, per ogni errore che commettevo e non vedendoci da un occhio, di errori ne commettevo in quantità. Quando poi la mia cecità su un occhio emerse, quando lo strabismo e l’occhio pigro furono finalmente diagnosticati, emersero anche tutte le angherie che avevo subito per mano della maestra, altra figura che ha inciso profondamente nella demolizione sistematica della mia autostima, ma almeno mia madre ha chiesto umilmente scusa.
Ancora oggi si scusa per quei fatti. Mio padre invece, non contempla quella parola nel proprio vocabolario e comunque per scusarsi di qualcosa, bisogna prima essersi resi conto degli errori commessi, non credo che ciò sia alla sua portata. Della maestra invece preferisco tacere, non fa più parte della mia vita e nemmeno di questo mondo ormai.
Se non fosse per un vissuto simile, un ragazzino farebbe la pipì al letto fino all’età di 14 anni? Un bambino solare, allegro e pieno di gioia, potrebbe diventare un ragazzino taciturno e chiuso in sé stesso, senza trovare più il coraggio di aprirsi con qualcuno? Domande retoriche.

Tornando a mio padre, questa volta mi controllo – “Stai tranquillo papà, qui ci sono solo 13 gradi, morti squagliati sul marciapiede non ne ho visti!“.

In realtà, nel corso della mia permanenza in Germania, la morte ha fatto la sua fugace comparsa, ma il caldo non ha avuto alcun ruolo nel facilitarle il lavoro. Si è trattato della morte di una cugina di mia madre, Susanne era il suo nome, che ancora giovane, come si dice oggi grazie alla neolingua del politicamente corretto, ha deciso di tirare le quoia, convinta da una lettera inviata dalla Krankenkasse (l’equivalente delle nostre ASL), che la invitava ad effettuare i periodici esami diagnostici per la “prevenzione” dei tumori, è entrata in ospedale, iniziando il più classico degli iter clinici, quello che spesso conduce alla tomba: ha effettuato gli esami, poi la visita dall’oncologo per sospetto “tumore della mammella”, poi la biopsia che ha confermato la diagnosi, infine le è stato somministrato quel letale mix di farmaci chiamato chemioterapia e in appena 4 giorni è giunto il decesso per sepsi, ovvero intossicazione del sangue e degli organi. Tutto l’iter, dall’ingresso in ospedale alla sopravvenuta morte, è durato 6 giorni, meno di quanto il Signore abbia impiegato per creare l’intero Universo.
Cosa c’è di strano?
Per me, che farmaci non ne prendo, tutto.
Per i figli della defunta, gli amici ed i parenti più stretti, che assumono farmaci per qualsivoglia motivo, dall’emicrania, al prurito dell’alluce, nulla.
Che possiamo farci” – dicono – “è il nemico invisibile“, “l’assassino senza nome“, “il male incurabile“.
Ma sulla cartella clinica però, la causa di morte ha un nome ben preciso: sepsi. Non c’è mica scritto che è morta a causa di un tumore della mammella.

E’ anche vero che la cugina, pur non soffrendo di particolari problematiche di salute, se non del male comune all’intero Occidente, ovvero l’obesità e la cattivissima alimentazione, da cui poi scaturiscono la quasi totalità delle patologie, si sottoponeva da anni a continue visite specialistiche e diagnostiche, alla ricerca del cancro, sembrava non vedesse l’ora di sentirsi dire che ne aveva uno e di potersi fregiare di quell’onore. Per una questione prettamente probabilistica, cerca oggi e cerca domani, il rischio è che prima o poi, si finirà per trovare quel che si è cercato con tanta insistenza.

Il nonsense di questa situazione sta tutto lì, una persona sana, entra in ospedale, senza avere alcun tipo di fastidio concreto, né dolore, né inabilità. Ci entra perché la sua fede nella “scienza” e la paura indotta da anni di “propaganda” sul male incurabile, l’hanno resa vulnerabile, come quasi tutti quando si parla di tumori. Si è prestata ai buoni consigli giunti dalla Krankencasse e dal medico curante, si è affidata, anzi si è consegnata, al sistema sanitario. Chissà se adesso ha compreso, se si è ricreduta.

Un sistema sanitario, quello tedesco, che fa rabbrividire per come sono gestiti gli ospedali, ormai vere e proprie aziende private, che devono rispondere a precisi numeri, tenere i bilanci in ordine e trarre profitto, pienamente in linea con le politiche che i tedeschi, fedeli adepti dell’austerità, hanno imposto all’intera Europa, peccato che i loro dati, così come i bilanci dello Stato tedesco, siano sempre stati falsificati, come certificato dalla Corte dei conti tedesca, ed ora, finalmente ammesso perfino da coloro (qui e qui) che fino a ieri ne decantavano ed esaltavano il rigore economico e la correttezza morale.

Un esempio di ciò, è l’ospedale ortopedico di Heidelberg, che preventiva il numero totale di protesi che dovranno essere impiantate nel corso dell’anno e se giunti a metà dell’anno si è lontani dal raggiungere quei numeri, ecco che come per magia, qualunque paziente si presenterà di fronte al medico specialista per qualsivoglia problema, si vedrà offerta la possibilità di risolvere quel problema grazie ad una protesi, non importa se il gonfiore al ginocchio poteva guarire con qualche giorno di riposo e un semplice antinfiammatorio, protesi sarà, con premi per tutti, medici, infermieri, direzione sanitaria, e soprattutto per l’azienda produttrice, i pazienti comunque non hanno di che lamentarsi, ci guadagnano delle protesi nuove di zecca, da far invidia a Robocop.
Una gestione della sanità, che per me che provengo dalla Calabria non è una novità, difatti ricorda molto un’associazione per delinquere, non dico che in Italia siamo messi meglio, ma forse neanche peggio. Ormai la quasi totalità dei medici, e la pandemia l’ha confermato, hanno il solo ruolo di piazzisti delle case farmaceutiche.

La cerimonia funebre della cugina Susanne, celebrata con rito cattolico, direttamente nella piccola cappella del cimitero, si è svolta alla presenza di una ristretta cerchia di parenti e amici (28 persone in tutto, incluso il celebrante), intermezzata da un sottofondo musicale con canzoni rigorosamente selezionate dai figli fra quelle che la madre amava ascoltare. Mi viene in mente che il giorno in cui dovessi rinunciare alla mia immortalità, potrei regalarmi un funerale simile, di certo i presenti sarebbero di gran lunga inferiori, forse una decina ad esser ottimisti, vorrei proprio vederli mentre sono costretti ad ascoltare Foo Fighters, Nirvana, Ayreon, Dream Theater, Pink Floyd, Steven Wilson, Glasvegas, The Jezabels, Wuthering Heights e Amorphis, ma volendo essere dispettoso, potrei inserire quelli che proprio non sopporto, come Jovanotti, Ornella Vanoni, Tiziano Ferro, Fedez, Piero Pelù oppure uno dei tanti personaggi insulsi partoriti dalla De Filippi.

Al termine della breve funzione, il piccolo corteo funebre si è spostato in un’area del cimitero riservata alle nuove tumulazioni, sotto un cielo plumbeo e carico d’acqua e con il forte vento, che per alcuni minuti ha sferzato i viali alberati e sollevato per aria foglie e petali, contrastando con il suo soffiare impetuoso, il suono proveniente dai diffusori acustici posti lungo i vialetti, dal quale si udiva lo stesso sottofondo musicale ascoltato durante la funzione religiosa. Tutto lasciava presagire l’imminente arrivo di un acquazzone (o bomba d’acqua in neolingua).

Durante la tumulazione delle ceneri, il vento è cessato ed ha iniziato a cadere una fine pioggerella, gli ombrelli si sono aperti, donando alcune note di colore a quella sinfonia di grigio e di verde che era il paesaggio circostante. Fedele a me stesso, sono rimasto l’unico a non aprire l’ombrello, anche perché non lo avevo… infine, parenti e amici stretti, si sono recati in un vicino ristorante, per un bel pranzo, come si usa in questo paese, come a dire “caro defunto, adesso che ti sei levato dalle scatole, ce ne andiamo a mangiare…“.

Finita la tumulazione, tutti si sono diretti verso il parcheggio, mentre le nuvole si aprivano facendo comparire lembi di cielo azzurro e i raggi di un timido sole cominciavano a scaldare nuovamente l’aria e i cuori. Prima di seguire gli altri al ristorante, ho chiesto a mio fratello di indicarmi la tomba di una cara zia, venuta a mancare alcuni mesi fa e madre della cugina appena sepolta.

Anche i cimiteri in Germania hanno un’aria meno triste e lugubre rispetto all’Italia, non ci sono i cosiddetti colombari, quelle ampie filerate di loculi sovrapposti, che a me hanno sempre trasmesso un senso di orrore e ricordato i condominii popolari, al loro posto ci sono ampi spazi verdi, con le tombe poste direttamente al suolo, all’americana, ricoperte da lastre di marmo, granito, pietra o addirittura legno. C’è anche la possibilità di non mettere niente, non lasciando così alcuna incombenza ai parenti, in alternativa si può decidere di piantare un alberello, un modo per lasciare questo mondo con qualcosa che continuerà a vivere per anni e che darà riparo agli uccellini.

Cimitero
Anche i cimiteri in Germania hanno un’aria meno triste e lugubre

Passeggiare per un cimitero è un’attività che non mi sarebbe mai saltata in mente se fossi stato in Italia, a meno di non visitare un cimitero monumentale, ma qui sembra di trovarsi ai giardinetti.

Aiuole curate, arbusti in fiore, panchine su cui sostare, fontanelle decorative e tantissime statue, non solo di angeli, di santi o della Madre di Dio, ma anche di bambini, di animali e riproduzioni di strumenti musicali. Alcune lapidi sono ornate da chincaglierie new age, come le canne al vento o gli acchiappasogni, non credo che chi abbia affisso simili oggetti conosca davvero il loro significato simbolico.

Particolarmente toccante è l’area in cui sono collocate le sepolture dei bambini. Mi soffermo a leggere le date di nascita e quelle di morte, alcuni erano davvero molto piccoli, ma non c’è differenza sostanziale, se un bambino lascia questo mondo all’età di 12 anni o se lo fa a 2 anni, si tratta ugualmente di una tragedia, posso solo immaginare lo strazio che hanno provato i genitori e chiedermi quale disegno divino possa contemplare una perdita di tal fatta.
Osservo le foto, anche se non in tutte le lapidi sono presenti. Bellissimi bambini, dai capelli biondi, rossi, bruni, i volti sorridenti. Un bambino è raffigurato mentre indossa un completino elegante azzurro, sotto la giacca una camicetta bianca ornata da un papillon in tono con l’abito, chissà in quale festosa occasione venne scattata quella foto, chissà quale evento tragico ha portato via questa giovanissima vita. Mi fermo alcuni minuti per pregare per queste giovani anime, anche se non conoscevo questi bambini e la mia fede si accende ormai solo a giorni alterni.

Non posso che pensare a quanto accadde nel maggio del 2018, quando lavoravo a Cavallermaggiore, le istantanee di quella triste vicenda mi ritornano alla mente. Al termine di una mattinata di scuola come tante altre, uno scuolabus riporta i bambini a casa. Le mamme e i papà sono in attesa dei figli alla fermata. Lo scuolabus giunge, la portiera si apre e i bambini scendono allegri e rumorosi. Un bambino sfugge la mano della sorella maggiore, anch’essa sullo scuolabus, tanta è la gioia di essere a casa e di correre incontro alla mamma che sta aspettando entrambi dall’altra parte della strada. Il pulmino riparte, oscurando così parte della visuale e non vi sono strisce pedonali. La sorella chiama subito il fratellino a gran voce e prova ad andargli dietro, ma in una frazione di secondo si consuma la tragedia: il suono di una frenata, un colpo sordo, il bambino riverso a terra. Il conducente dell’auto, scosso per l’accaduto, scende immediatamente per prestare soccorso, tutti capiscono che le condizioni del bambino sono molto gravi. Poi il volo in elisoccorso al Regina Margherita di Torino, dove il giorno successivo, 24 maggio, il piccolo cuore di Francesco cessa di battere, un giorno prima di compiere il suo settimo compleanno.

Francesco Testa
Il piccolo cuore di Francesco cessa di battere, un giorno prima di compiere il suo settimo compleanno

Ricordo il funerale, i palloncini bianchi, come la bara, i compagni di scuola e tutto il paese stretto intorno alla famiglia, una vicenda che com’è ovvio, colpì profondamente l’intera comunità scolastica. Ricordo che nei giorni successivi alla tragedia, vedevo la sorella maggiore a scuola.
Adele non era una mia alunna, nella sua classe mi recavo solo quando uno dei miei alunni con sostegno era assente, e prelevavo alcuni alunni BES e DSA per aiutarli a studiare in vista di una verifica o un’interrogazione, ma tutti eravamo pieni di attenzioni per lei, anche se si cercava di usare sempre il dovuto tatto per non farle pesare ulteriormente quella situazione.
Una tragedia simile, può cambiare i destini e le vite dei membri di una famiglia.

Mi auguro che il Signore possa aver donato loro la necessaria consolazione e mi chiedo, una volta di più, se esiste un disegno più grande. Spero che sia così.

Tornando al presente, l’idea di andare a mangiare al ristorante, per di più a spese dei figli della defunta, non mi era affatto piaciuta, in quanto mi sembrava di “approfittare” della situazione e lo trovavo oltremodo fuori luogo. In realtà, devo ammettere, che nonostante ognuno dei presenti abbia ricordato episodi e aneddoti che avevano per protagonista la cara cugina, il clima è stato sereno e il morale, specie quello dei figli, non ha subito quelle ricadute che un lutto inevitabilmente porta con sé.
Senza dubbio, lo stare insieme per alcune ore a parlare, a rivivere momenti belli e significativi, è un grande aiuto, rispetto al chiudersi nel lutto e nella tristezza, senza alcuna valvola di sfogo e senza una spalla su cui poter piangere.

Il menù del ristorante abbonda di piatti di carne, nei tavoli vicini a quello dove sono seduto, bistecche alte tre dita, accompagnante da salsine varie, funghi, cipolle e le immancabili patatine fritte, fanno la loro comparsa. Ci sono anche le classiche “schnitzel”, cotolette di maiale, che qui raggiungono dimensioni inimmaginabili, una volta ne avrei ordinato un piatto anch’io, non fossi diventato vegetariano, tanto più che qui una normale porzione è composta da due cotolette, una montagna di patatine fritte e funghi champignons con relativa salsa.

Opto per i canederli agli spinaci, pecorino e noci

Opto per i canederli agli spinaci, pecorino e noci, accompagnati da un’insalata verde e dalle sempre presenti patatine.

Alla mia richiesta di acqua naturale, la cameriera strizza entrambi gli occhi guardandomi come se fossi appena sceso da un disco volante. Acqua minerale non ne hanno. Corro ai ripari ordinando del johannesbeershorle, vale a dire succo di ribes, con aggiunta di anidride carbonica, liscio non esiste, tanto per cambiare.

Terminato il pranzo, saluto i figli della defunta, mi vengono cugini, ma li vedo così di rado che siamo quasi degli estranei.
Ricordo che quando io e mio fratello eravamo ragazzi, riuscivamo a divertire questi cugini, c’era reciproca simpatia, anche perché loro erano più piccoli di noi, ma eravamo accomunati non solo dal legame di parentela, ma anche dal fatto che anche loro, come noi, sono gemelli.

Salgo in auto con una sensazione di gonfiore addominale dovuto alla bibita gasata, nel giro di una mezzoretta saremo a casa, nello Stutensee, fortuna che c’è da portare a spasso Nellie, la cagnolina di mio fratello, la passeggiata aiuterà anche me a smaltire i gas.

Quando vengo qui, se posso, evito di guidare, lascio che lo faccia mio fratello, io mi stresserei soltanto, invece ne approfitto per osservare il paesaggio. La città è un grande cantiere a cielo aperto, parte dei binari del tram sono stati “interrati”, permettendo al corso principale, la KaiserStrasse, di trasformarsi in isola pedonale. Sin da quando ero piccolo, la città mi ha sempre affascinato. Ero attratto dai numerosi negozi multipiano, grandi magazzini che in Calabria si potevano solo sognare o vedere al cinema. I reparti giocattoli erano immensi, io vi trascorrevo molte ore ad ammirere gli stupendi modellini di trenini elettrici che attraversavano tutto il reparto, con ricostruzione minuziosa di paesaggi e villaggi. C’era poi l’area dei mattoncini Lego, dove i bambini potevano cimentarsi a costruire ed inventare, potendo disporre di una serie infinita di mattoncini, delle creazioni del tutto originali. All’ultimo piano di uno di questi immensi negozi, vi era l’area dedicata alla vendita di prodotti per animali, incluso un grande reparto dove vendevano gli acquari. Quando giungevamo lì, mia madre si rassegnava a trascorrervi un paio di ore e io e mio fratello rimanevamo incollati ad ogni singola vasca ad ammirare centinaia di pesci variopinti. La cosa divertente era passeggiare per gli ampi marciapiedi della città, dove spesso ci capitava di trovare monetine, centesimi di Marchi, i cosiddetti Pfennig, che all’epoca erano utilizzabili per acquistare caramelle in uno dei tanti distributori sparsi agli angoli delle strade, accanto a quelli di sigarette, ma che erogavano caramelle e palline colorate. Ogni quartiere poi, presentava una piazza o dei giardinetti con una serie di giostrine, percorsi a ostacoli, castelli di legno, dove potersi arrampicare, tutte cose che a Reggio Calabria erano inimmaginabili, pura fantasia.
Oggi in città i volti sono quelli tipici del mondo globalizzato, di tedeschi autoctoni se ne vedono pochi, per il resto turchi, kurdi, bulgari, bielorussi, kazaki, siriani, pakistani, cingalesi. Sono loro a gestire la quasi totalità delle attività legate al mondo della ristorazione, che poi sono la maggior parte delle attività che affacciano sulla via, non sarebbe un problema, se questi cittadini sentissero la cittadinanza tedesca come propria, così non è, ovviamente.
La città pulita, senza cartacce, mozziconi di sigarette, deiezioni canine, lattine schiacciate, bottiglie rotte, non esiste più e chissà da quanto tempo, sostituita dal degrado diffuso in ogni dove.
Anche qui i cafoni dominano la scena, gente in canottiera e ciabatte, neanche ci trovassimo in spiaggia, tatuaggi, barbe alla talebano, catene e bracciali d’oro (meglio dire dorati) da far invidia a Mr. T, per non parlare di pantaloncini inguinali addosso a ragazzine così come a signore attempate. Ragazze anche carine, che per seguire la stupida tendenza del momento, si imbruttiscono con colorazioni di capelli inverosimili, piercing al naso o alle sopracciglia e unghie in stile artigli, dovrebbero essere in qualche misura sexy, ma a me ricordano Freddy Krueger, queste sarebbero le conquiste dell’emancipazione femminile che non contenti vorremmo imporre alle altre culture.
A dir la verità, non mancano le ragazze carine, ma esiste un unico modello, un unico “prototipo” imposto dai social e dalle influencer, prevede capelli lisci lunghi, ciglia sistematicamente finte, pantaloncino jeans inguinale, t-shirt bianca e scarpe da ginnastica egualmente bianche, rossetto effetto bagnato, unghie finte lunghe non meno di 5 cm, linguaggio da camionista e possibilmente affiancate a qualche buzzurro non meno cafone.
Come si sia passate dal sognare il principe azzurro, prototipo da me egualmente detestato, al sognare il cafone tatuato e dall’alito puzzolente di fumo, alcohol e kebab, rimane un mistero che, nella mia piccolezza, non sono in grado di comprendere.

Una volta usciti dalla città, il paesaggio urbano lascia posto al paesaggio boschivo e campestre, i giardini del Castello di Karlsruhe infatti si uniscono al bosco, diventando un mega parco che collega la città al suo hinterland, cosparso di piccoli paeselli, disposti in ordine quasi maniacale, con il campanile della chiesa che svetta sopra gli altri tetti aguzzi.

Giunti a casa, cambio velocemente abiti, scarpe e umore, siamo pronti per uscire, Nellie non vedeva l’ora e inizia a scodinzolare e piroettare su sé stessa.

Le nuvole non ne vogliono sapere di andar via

Le nuvole non ne vogliono sapere di andar via. Mentre noi ci trovavamo al ristorante, qui deve aver piovuto abbondantemente, numerose infatti sono le pozzanghere.

In questa stagione, il bosco sarebbe normalmente pieno di zanzare, mosche, tafani, maggiolini e altri insetti volanti, ma il freddo di questi giorni, ha allontanato le loro presenze moleste e percorrere uno dei numerosi sentieri che lo attraversano è davvero piacevole.

Camminare stimola la digestione, non che avessi mangiato chissà quale quantità di cibo, anzi, il piatto di canederli consisteva in appena due “palle”, l’insalata era una mini-porzione, mentre le patatine fritte le ho condivise con mio fratello, sua moglie e un altro commensale, il consuocero della defunta, che era seduto al nostro stesso tavolo, ma l’anidride carbonica preme sullo stomaco, e incautamente do il via a una gara di rutti che non posso assolutamente vincere, mio fratello aveva infatti ordinato radler, cioè un mix di birra+gazosa, e nonostante la mia eccellente partenza, alla lunga esco sconfitto, ma almeno è sparita la pressione sull’addome.

Passeggiare mi aiuta a pensare. In Piemonte sono abituato a farlo, le mie passeggiate sono perennemente in solitaria, anche se non per scelta, dato che i miei soli due amici piemontesi, vivono distanti dal luogo in cui risiedo. Quando 17 anni fa giunsi in provincia di Cuneo, ero carico d’entusiasmo e aspettative. Oggi considero la mia permanenza in Piemonte, un lungo esilio avvolto nella solitudine. Non ho più alcuna aspettativa, so già che lì, amici non me ne farò alcuno, sono e sarò considerato sempre uno straniero, talvolta una brava persona, ma da cui tenere comunque le distanze.
L’errore più grande che ho commesso, non è stato quello di arrivare in Piemonte, l’errore più grande è stato non esser fuggito a gambe levate, dopo i meravigliosi “biglietti da visita” che la provincia di Cuneo ha voluto offrirmi sin da subito e senza alcun pudore, un misto di razzismo perbenista o per dirla come usa oggi, “inclusione”, ma forzata, quella per intenderci, in cui nessuno ti caccerà mai, nessuno ti dirà “torna a casa tua!”, ma certo non t’invitano a casa loro e continuano ad apostrofarti come “el terun“. Ho perso il conto delle volte in cui mi è stato promesso “una sera organizziamo e venite a cena da noi“, oppure “un sabato perché non andiamo a prenderci una pizza insieme“.
Già, una volta, un giorno, una sera, un sabato, un weekend. Come dire: prima o poi, tempo indefinito. La solita sagra delle buone intenzioni, che restano tali, senza mai concretizzarsi. Cosa vale la parola data in provincia di Cuneo? Meno di nulla. Quante volte mi becco i cazziatoni di mia moglie, a motivo della mia generosità. Le dico sempre che uno è generoso non perché vuol essere ricambiato, non sarebbe più generosità autentica, ma interesse. Quello che uno fa per gli altri, lo fa perché è un modo per stare bene con sé stessi. Se poi uno è cristiano, a maggior ragione dovrebbe donarsi.
Talvolta però mi chiedo se non abbia ragione mia moglie, a cosa serve porgere sempre l’altra guancia e continuare a ricevere schiaffi?
I pensieri negativi ci mettono un attimo a trovare la porta d’ingresso e non c’è chiavistello che possa reggere alla loro subdola azione, ma una volta entrati, più difficile è scacciarli.

Qui ho la compagnia di mio fratello e di mia madre, per cui le passeggiate sono certo più piacevoli, posso raccontare loro ciò che ho vissuto nel corso del periodo in cui non ci siamo visti, parlare del mio lavoro, dei miei alunni, che un pochino, adesso conoscono anche loro.
Posso ascoltare ciò che i miei hanno da raccontare. Non è niente di speciale, anzi tutto molto ordinario, normalmente questi confronti avverrebbero quotidianamente, almeno se uno ha la fortuna di vivere nello stesso luogo dei propri cari, tutt’al più si prende il telefono e si fa una chiacchierata per sapere come stanno e cosa fanno. Ma i miei cari vivono qui, mentre io vivo in Italia, per cui, quando soggiorno in Germania, approffitto della loro compagnia, per recuperare il tempo perduto. Se mi soffermo qualche istante a scattare delle fotografie, o ad osservare il paesaggio, immediatamente subentrano i pensieri: vorrei averla qui, insieme a me, a passeggiare mano nella mano, a guardarla nei suoi magnifici occhi, ad ascoltare la sua dolcissima voce.

Quando i pensieri subentrano, provo le medesime sensazioni che provavo quando ero nel pieno della depressione. Agitazione, angoscia, inquietudine, timore che possa nuovamente precipitare in quell’oscuro abisso.
La tentazione è quella di cercare fonti di distrazione, ma sarebbe un grave errore, adesso lo so, ho passato due anni a cercare distrazioni, a suo tempo, prolungando, di fatto, la durata della mia depressione.

Qualsiasi pensiero o sensazione va vissuto, arrendendosi completamente ad esso, solo così gli si dà la giusta dimensione e lo si riesce a superare.

Solitudine

Il mio nemico è molto scaltro, è lui che m’invita a cercare distrazioni.
Sarà dura lotta riuscire a non sprofondare nuovamente nell’abisso, la prima volta sono riuscito a tirarmene fuori in due lunghissimi anni, ma il Signore mi aveva fornito delle armi formidabili, ragazzini che neanche sanno quale decisivo ruolo hanno avuto in quella vicenda, così come non possono sapere quanto sono stati importanti per me, come potrebbero, mi vedevano appena due ore alla settimana, talvolta neanche quello, ma per me erano le due ore che mi restituivano alla vita, spero che a settembre possa ritrovare quelli che mi sono stati assegnati per la prima volta lo scorso anno, perché anche loro sono entrati prepotentemente nel mio cuore.

Per ora posso solo affidarmi alla preghiera e alle persone che amo, anche se quella che amo più di tutte non è qui con me.
Il suo pensiero è il più ricorrente e mi fa sospirare, ma è il solo che riesca a donarmi la forza, anche se so che non potrò averla, non in questa vita, confido che in una delle prossime, il mio pellegrinaggio mi conduca finalmente da lei.

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