Anna è una ragazzina di tredici anni, capelli castani corti dietro la nuca e mossi sopra la testa, mingherlina di corporatura e con un’espressione impassibile resa ancor più accentuata dai profondi occhi azzurri, nonostante sia molto graziosa è convinta del contrario.
Anna ama disegnare e lo fa con grande abilità, riempie album interi con i propri schizzi ma il suo giudizio su quanto realizza rimane impietoso.
Anna non ha amici, i compagni di scuola le stanno a debita distanza, non è mai invitata ad alcuna festa e non invita nessuno a casa sua per prendere un tè, a lei non importa, non importa appartenere ad alcun gruppo, lei è sempre stata fuori.
Anna porta con sé un bagaglio pieno di insicurezza, insicurezza che diventa certezza, certezza di non essere all’altezza, di non poter piacere a nessuno, di non essere brava a fare niente, di non sentirsi compresa, di non poter entrare nel mondo degli altri, di dover eternamente rimanere fuori, prigioniera di quel labirinto che a volte la mente eregge per lasciare oltre la sofferenza e dimenticare.
La madre di Anna è molto preoccupata, non sa più cosa fare né come prenderla, specie adesso che sua figlia è nel pieno di quella crisi adolescenziale che fa dell’incomunicabilità la propria corazza.
Anna assume un’espressione “ordinaria” per non ricevere l’attenzione di alcuno, non è solamente asociale ma anche scontrosa quando costretta alla socialità, inoltre c’è quell’asma che non le dà mai tregua con quei fastidiosi attacchi, fastidiosi soprattutto perché fanno preoccupare sua madre, quella donna così apprensiva e piena di attenzioni non richieste, che lei chiama “zietta” perché non riesce a chiamare “mamma”.
Allora perché non provare a staccare?
Dopotutto mancano un paio di settimane alle vacanze estive, saltare un paio di settimane di scuola non sarà certo un problema dato che i voti di Anna non sono cattivi, anche se non sono neanche buoni, sono costantemente sufficienti e i suoi insegnanti non fanno che ripeterle “non ci provi nemmeno”.
Forse trascorrere un periodo al mare, a casa degli zii e dimenticare per un po’ la scuola, l’asma e la “zietta” potrà farle bene.
Quegli zii quasi non li ricorda, è trascorso molto tempo dall’ultima volta che li ha visti, ma vivono in un luogo incantevole, un piccolo villaggio costiero che d’estate si riempie di rumurosi villeggianti, ma che in questo periodo potrà offrirle la tranquillità di cui Anna ha bisogno, un luogo dove il mare si insinua dolcemente in un’insenatura che grazie al gioco delle maree diventa palude, trasformando continuamente il paesaggio.
E poi c’è quella grande e antica casa dalle finestre azzurre, proprio di fronte alla palude, una casa che se ne sta lì solitaria e che sembra osservare Anna, anzi sembra proprio che la stia aspettando da tempo, ma chi potrebbe abitare in una dimora simile, che per giunta sembra essere abbandonata?
Eppure al tramonto la casa appare viva, delle luci compaiono alle sue finestre e ad Anna è sembrato di vedere una misteriosa ragazzina dai lunghi capelli biondi, il cui abbigliamento sembra appartenere ad un’altra epoca, si tratta forse di un fantasma o è forse frutto della sua immaginazione?
Una storia commovente, che tocca le corde più profonde dell’anima.
Dagli autori de “La Città Incantata”, “Il Castello Errante di Howl”, “La Principessa Mononoke”, “Arrietty”, un altro capolavoro firmato Studio Ghibli, “Quando c’era Marnie“.
Protagoniste di questa storia sono, come sempre nella produzione ghibliana, delle fanciulle nel fiore degli anni, simbolo di purezza ma anche di speranza verso il futuro, se vi siete innamorati della pigra e viziata Chihiro, dell’umile Sophie, della coraggiosa Nausicaa, della timida Kiki, della malinconica Arrietty, della selvaggia Principessa spettro, non potrete rimanere indifferenti di fronte all’introversa e solitaria Anna e alla leggiadra e misteriosa Marnie.
Questa volta non ci troviamo catapultati in un mondo fatato, non vi sono maghi o magia, né animali fantastici, non vi sono riferimenti alle brutalità della guerra, nessuna lotta tra il bene e il male, solo una profonda indagine psicologica sulle ferite dell’abbandono, sul perdono e sull’amore come unica terapia atta a sanarle, un viaggio nella mente di una adolescente ferita, un lento emergere di ricordi offuscati dalle nebbie del tempo, l’annuncio di una imminente tempesta, che si scatenerà in tutta la sua dolorosa verità, per lasciare spazio in ultimo, al chiarore di un amore infinito.
Ogni volta che assisto ad un nuovo film d’animazione realizzato dallo Studio Ghibli, parto dall’errato preconcetto che per quanto bello potrà essere, difficilmente riuscirà a superare quello precedente.
Fortunatamente le mie aspettative vengono puntualmente smentite, anche questa volta sono rimasto piacevolmente sorpreso non solo dalla semplice bellezza con cui sono caratterizzate le due protagoniste, così diverse ma così simili nel mostrare solo un apparente stato di benessere psichico, in realtà fragili e segnate entrambe da un passato fatto di sofferenza, tanto che la loro amicizia, nient’affatto casuale, sembra indissolubile anche se è destinata a infrangersi sugli scogli della vita, senza tuttavia poter in alcun modo cessare, perché quella che sembra solo una grande amicizia, è in realtà un legame ancora più grande e inscindibile.
A tratti sembra essere una storia di fantasmi, con l’evanescente Marnie che appare e scompare come per incanto e con la solitaria Anna che alla fine di ogni incontro con l’amica segreta, che sembra avvenire in una dimensione onirica, si ridesta in una realtà che la vede sempre isolata dagli altri.
Certamente si tratta di una storia la cui narrazione, tratta dall’omonimo romanzo “When Marnie was there” di Joan G, Robinson, seppur articolata, procede con una certà linearità, la psicologia dei personaggi viene lentamente a galla, ma sempre più inesorabilmente, in un crescendo d’intensità, fino a rivelare la loro vera natura.
Se le storie della Disney ci mostrano sin dall’inizio chi sono i buoni e chi i cattivi, lo stesso non si può dire per le storie dello Studio Ghibli dove spesso i malvagi ritrovano sentimenti dimenticati o fanno intravvedere il loro lato più tenero con piccoli gesti, dalla perfida Strega delle Lande che perso ogni potere magico riscopre l’amore primigenio e rinuncia al cuore di Howl, alla scaltra Dama Eboshi, che si mostra caritatevole nei confronti dei lebbrosi, che dona libertà e dignità alle schiave che riscatta e che esploso il colpo che priva della testa il Dio Bestia e perduto un braccio, si dichiara pentita e pronta a ricostruire su basi di convivenza pacifica, dalla malvagia e potente maga Yubaba, che appropriandosi dei nomi dei malcapitati che giungono alle terme ne controlla le vite, ma che si mostra madre sin troppo premurosa nei confronti del suo bambino, o che superata in astuzia si lascia chiamare affettuosamente “nonnina”, alla spietata Principessa Kushana, che guidata dalla sete di vendetta, vuole annientare la Giungla Tossica, ma che alla fine si scoprirà regnante saggia, le storie Ghibli offrono sempre un’opportunità di rivalsa.
Se i finali della Disney ci portano ad un grandioso quanto scontato lieto fine in cui “vissero tutti felici e contenti”, e aggiungo “nei loro ricchi e incantati palazzi”, giacché il messaggio implicito è che il principe azzurro con il suo bianco destriero è la trasmutazione di quel “destino manifesto” al quale ogni buon americano deve legittimamente ambire in quanto appartenente al “popolo eletto”, i finali dello Studio Ghibli ci mostrano certamente dei lieto fine, ma il fato al quale sono destinati i nostri eroi è fatto di normalità, di fatica, di sacrificio, di piccole vittorie e di grandi sconfitte, di promesse mantenute o infrante, ma comunque di un fiero impegno, poiché restano dei comuni mortali, i quali per l’appunto, sono destinati a perire, ma consegnandoci l’immortalità delle loro anime.
Come abbia potuto perdermi questo film dato che la sua uscita nelle sale italiane risale al 2015 non so spiegarlo, certo non avendo la TV da ormai quasi un decennio e non frequentando i cinema da quando vivevo ancora in Calabria, non è stato affatto difficile, ma non ha alcuna importanza, ho recuperato il film e letto anche il romanzo, che nonostante presenti molteplici errori di traduzione e di trascrizione, oltre a piccole e ovvie differenze rispetto al film, risulta comunque ugualmente intenso, anche se trovo il finale del film molto più emozionante.
A mio modesto parere è un film meraviglioso, ma non sono un giudice imparziale in quanto adoro la produzione del buon Hayao Miyazaki, per cui di questo film, come del resto di quelli precedenti e successivi, posso solo consigliarne caldamente la visione, sicuramente a tutti, ma in special modo a quei ragazzi e ragazze che si trovano nella fragile condizione di figli adottivi e che portano nell’anima un fardello che talvolta la mente, da sempre subdola ingannatrice, tende ad appesantire, facendoli sentire eternamente respinti, convinti di non poter essere mai davvero amati e accettati.
Un film che offre una visione alternativa e spesso poco considerata dell’abbandono, anche se ogni storia di abbandono è una storia diversa, talvolta chi abbandona un figlio lo fa contro la propria volontà, per una serie di eventi o perché a sua volta ha vissuto un’infanzia in cui è mancato l’affetto, possiamo chiamarlo destino, caso, oppure sfortuna, ciò non toglie che ogni abbandono infligge le sue ferite e lascia profonde cicatrici.
Questo film riesce a mettere pace nell’anima e ad ammorbidire anche i cuori più rigidi, permette di avviare la complessa pratica del perdono, di compiere un primo passo verso la piena accettazione di sé, poiché se le ferite possono essere rimarginate, le cicatrici restano, solo possiamo guardarci e guardarle senza più provare risentimento, senza più provare dolore.